Portat(t)ori di pace

di Alberto Grazioli

“Nella voce interiore, l’infimo e il sommo, l’eccelso e l’abietto, verità e menzogna spesso si mescolano imperscrutabilmente, aprendo in noi un abisso di confusione, di smarrimento e di disperazione.” C.G. Jung.

“Finalmente… dopo una giornata difficile… finalmente… abbandonato alla poltrona… e sono in pace!”

E lì, soli con noi stessi, forse solo lì, ci rendiamo conto che la pace che cerchiamo “fuori” non può che essere costruita “dentro”. Solo quando riusciamo a ritagliarci un po’ di spazio, liberi dalla routine, liberi dalle richieste prestazionali, ci accorgiamo che la pace non può che nascere da dentro.

Spesso, per renderci conto di tutto questo, abbiamo l’impressione che solo “staccando la spina”, isolandoci dagli altri, lasciando a domani quello che oggi proprio non riusciamo o vogliamo fare, sia possibile raggiungere quella condizione che ci permette di “metterci in pace con noi stessi”.

Non me ne vogliate, non ho niente contro il riposo, l’ozio, la meditazione, uno spazio “per me stesso”: sono convinto però che l’estraniarsi per ritrovarsi assume senso solo in forza del ri-darsi.

Essere in pace con sè stesso e in pace con gli altri, e chi non lo vorrebbe? E allora i conflitti?

Proviamo a partire da una valutazione molto semplice: se cerchiamo la pace in noi stessi senza comprendere in questo disegno anche l’altro, cioè annullando la relazione, a volte anche per paura, otterremo molto poco. La pace con sè stessi È la pace con gli altri: risulta davvero difficile pensare di poter essere in pace con sè stessi e in guerra con il mondo, e viceversa, in guerra con sè stessi e in pace con il mondo.

La pace, anche quella interiore, in sé non esiste: è una condizione, un equilibrio transitorio di fattori in continuo movimento. Forse è proprio per questo che pensando alla pace con sè stessi in termini dinamici non può non venirci alla mente il padre della psicoanalisi che, nel pensare nel profondo l’essere umano, lo descriveva come continuamente in bilico tra il “principio di piacere”, i desideri, anche quelli più nascosti, le cose che vorremmo essere o fare, e il “principio di realtà”, il principio regolatore, che cerca di ottenere soddisfacimento nella realtà come risultato di condizioni imposte dal mondo esterno.

Di fronte a queste continue spinte, i “vorrei” da un lato e i “si può” dall’altra, la pace interiore assume i connotati più chiari di continui conflitti risolti, di continue condizioni intermedie che tentano di far dialogare esigenze interne in continuo contrasto.

Quelle voci che sentiamo dentro, e che spesso vengono rappresentate con la vignetta di un angelo e di un diavolo, possono aprirci la strada ad un altro concetto essenziale per psicologia: quello di “gruppalità interna”.

Il nostro modo di pensare, di agire, di risolvere i mille piccoli grandi problemi del quotidiano, sarebbe, seguendo questa visione, il risultato di relazioni esterne con altri che, nel corso della nostra vita, abbiamo reso interne. La voce della mamma che ci diceva: “Non ti preoccupare, non piangere…”, la voce del papà che ci diceva: “Cerca di fare del tuo meglio…”, e perché no, la voce della Capo Reparto che ci ha proposto nuove sfide da affrontare per renderci maggiormente utili: tutte queste dentro di noi rappresentano relazioni interne che da una parte ci guidano e dall’altra ci propongono modi e modalità a volte in contrasto.

Come è facile intuire il relazionarci con sè stessi e con il mondo non può che generare conflitti, cioè visioni differenti di possibili soluzioni che tengano insieme desideri, realtà e relazioni significative. È facile riuscire a pensare che quello che mi aspetto da me sia parte anche di quello che gli altri si aspettano da me; siamo immersi in una rete di rappresentazioni incrociate: le mie dipendenti dalle quelle degli altri che contemporaneamente sono dipendenti dalle mie… Come quando ci mettiamo in mezzo tra due specchi e la nostra immagine è replicata all’infinito.

Come possiamo educare alla pace, quindi, anche e soprattutto quella interiore?

L’idea dell’educare alla scelta, appare qui quella vincente. Non educhiamo a “fare proprio quella cosa lì”; educhiamo a scegliere, a reggere cioè quel senso di frustrazione del non poter avere “ognicosachevoglio” e non dover rinunciare “atuttoquellochecerco”. Educhiamo a porci sempre nella condizione di continuare a desiderare (e non a non desiderare per non rimanere delusi) mantenendo attiva la possibilità di elaborare delusioni, accettare la sconfitta, godere della pienezza. Educhiamo, o dovremmo essere in grado di farlo, ad ascoltare tutte le voci interne: accogliendone la provenienza, riconoscendone la verità (per quello che hanno da dire a noi) con l’obiettivo di mantenere l’equilibrio che deriva dall’ambivalenza, anzi dalla pluri-valenza di ogni conflitto che possiamo risolvere, prima dentro di noi.

Per essere in pace non possiamo che farci portatori-attori di pace.

Bibliografia

  1. Laplanche, JB. Pontalis “Enciclopedia della psicanalisi”, Universale Laterza, 1973
  2. Pichon-Riviere, “Il processo gruppale”, Lauretana, 1985
[foto di Carmen Pagano]

Leggi per intero “Facciamo Pace“, il numero di PE da cui è tratto questo articolo.

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