WHATSAPP DI SQUADRIGLIA

di Giuseppe Rossi

Pattuglia nazionale Branca E/G

Forse per noi boomer non è un vero sentirsi, ma per i ragazzi sì

Tanto, tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana… No, non stiamo parlando di Jedi e battaglie stellari ma di antichi modi di comunicare persi nel tempo, le catene di squadriglia e i Quaderni di caccia (in scautese, QdC). In realtà i quaderni caccia non sono del tutto scomparsi. In molti reparti vengono ancora utilizzati: i capi reparto chiedono sempre che vengano portati e qualcuno li porta, soprattutto i più grandi e i capi squadriglia. Insomma non è che le cose siano cambiate in maniera drastica. Diverso il caso della catena di squadriglia, strumento ormai sconosciuto. Era il modo per passarsi le informazioni in squadriglia: il capo squadriglia chiamava uno squadrigliere che chiama un altro e poi così via fino al vice che richiamava il capo e verificava la correttezza dell’informazione ricevuta.

Bisogna essere sinceri non è che fosse uno strumento perfetto: una volta sono arrivato a un Thinking day di gruppo con un’ora di ritardo per un messaggio sbagliato e al ritrovo non c’era più nessuno. Volevo mettermi a piangere, mollare gli scout e strozzare Giulio che mi aveva passato l’orario sbagliato.

Adesso il modo più comune di passare le informazioni è il gruppo WhatsApp di squadriglia. La “novità” è che a volte sono membri anche i genitori dei più piccoli che non hanno il cellulare. Per anni abbiamo combattuto con questo modo di comunicare. Anzi dicevamo che non era comunicare. Insistevamo sulle telefonate e dell’importanza della voce, di passare il messaggio correttamente e della possibilità di fare domande. Che alla fine poteva essere una scusa per sentirsi e parlare anche di altro. Poi arrivarono gli SMS, poi i gruppi Facebook e poi WhatsApp e Snapchat.

E poi arrivò il Covid. I ragazzi già sapevano che esistono relazioni senza corpo. Noi capi abbiamo per anni negato che scrivere un messaggio WhatsApp o Snapchat potesse essere un modo di “sentirsi” o di “vedersi”. Invece in quel momento anche noi adulti ci siamo resi conto che a distanza possiamo avere relazioni forti. Che una videochiamata è davvero un modo per stare vicini. E così la catena telefonica nella maggior parte dei casi non è esistita più, neanche nelle intenzioni dei capi. È andata meglio? È andata peggio? Pare che le informazioni girino con meno errori e che i ragazzi trovino nuovi modi di sentirsi. Forse per noi boomer non è un vero sentirsi, ma per loro va bene così.

E allora come fare? Possiamo educare a comunicare ancora? Sì, davvero in molti modi e non solo perché la comunicazione è presente in ogni interazione personale, ma perché dai riti alle imprese ci sono strumenti fondati sulla comunicazione. Abbiamo riti, cerimonie e simboli e il nostro mondo di comunicazione fatto di racconti intorno al fuoco, scenette scherzose e condivisione dei nostri pensieri più intimi sotto un cielo stellato. Anche nell’impresa (lo so che torniamo sempre lì) c’è un momento in cui la comunicazione è al centro. È la fase di lancio. Il lancio è il momento in cui l’idea, il sogno viene trasmesso a tutta la comunità e proprio perché condiviso inizia a essere già più reale. È il momento in cui tutti i ragazzi della squadriglia, del reparto o dell’alta squadriglia sono coinvolti, facendo crescere l’entusiasmo e la tensione verso la meta. Il sogno diventa così comune a tutti. Le modalità potranno essere diverse, con l’utilizzo di tecniche espressive varie e coinvolgenti. La cura del lancio è fondamentale, sia perché ci permette di comunicare quello che abbiamo pensato e sognato, quello che davvero vorremmo fare, sia perché dà impulso all’entusiasmo e crea la giusta tensione che condizionerà positivamente tutte le fasi successive. Trattiamola con cura e progettualità.

[Foto Roma 100]

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