Vivere le relazioni tra adulti e saper stare anche nel conflitto

La scelta dell’Agesci di concretizzare l’impegno educativo in un gruppo di adulti che scelgono di condividere valori, progetti e percorsi è coraggiosa e  complessa vista  la natura esperienziale  del metodo e la testimonianza personale richiesta. Spesso però non siamo preparati a relazionarci tra adulti:  c’è molto “non detto”, temiamo il confronto franco per non compromettere il “bel clima di comunità” e talvolta quando c’è conflitto qualcuno esce.  Abbiamo chiesto a Riccardo Tuggia di aiutarci a capire un po’ meglio cosa significa vivere relazioni  adulte.

COSA  SIGNIFICA VIVERE OGGI LE RELAZIONI TRA ADULTI ?
Chi è l’adulto? Secondo Erikson ciò che determina la situazione di adultità non è tanto una situazione di maturità cronologica o di particolare funzionalità sociale, quanto la dimensione di generatività. Essa non coincide con la capacità biologica di procreare ma, più profondamente, rappresenta la tensione e l’azione verso la cura disinteressata dell’altro. Anche l’adolescente è capace di servizio e di dono, ma tale propensione spesso si confonde con uno sconfessato desiderio di piacersi, di sentirsi utili, se non addirittura di apparire. L’immagine della generatività viene oggi spesso a realizzarsi nell’amore paterno e materno o nelle più varie forme di vita donata agli altri nella vocazione professionale e religiosa.

Gli studi di Berne sull’analisi transazionale indicano inoltre che ciascuno è formato da tre strutture, i tre Stati dell’Io. Sono modi di organizzazione dell’esperienza (sensazioni, pensieri, comportamenti) elaborati dalla mente e che si possono riassumere in tre figure che fanno riferimento alle relazioni che ciascuno ha vissuto fin dall’infanzia:

  1. Genitore (i comportamenti appresi dai nostri genitori o da altre figure educative)[1]
  2. Adulto (i comportamenti centrati sulla realtà, la parte razionale di tutti noi)[2]
  3. Bambino (i comportamenti legati alle dinamiche delle nostra infanzia rivelatesi efficaci)[3]

In ogni comunicazione mettiamo in gioco, inconsciamente, uno di questi stati: ci relazioniamo da adulti o da genitori o da bambini e l’altro interagisce assumendo a sua volta una di queste posizioni relazionali. La comunicazione può essere letta quindi come uno scambio tra stati e non sempre è positiva e generativa. Un’idea proposta con lo spirito libero del bambino, viene bloccata dall’intervento di chi assume lo stato del genitore normativo, originando frustrazione o ribellione, mentre chi si trova spesso a porsi come genitore affettivo può instaurare relazioni rassicuranti, ma anche suscitare in altri dipendenza, limitando lo spirito di iniziativa.

COME “SAPER  STARE” ANCHE NEL CONFLITTO IN MODO COSTRUTTIVO?
L’obiettivo è quindi quello di dirigersi verso la relazione adulto-adulto, sapendo che la consapevolezza della posizione relazionale che assumiamo ci rende maggiormente in grado di comunicare, di capire “dove si trova” l’altro, di interrompere i copioni infantili che spesso ci troviamo a ripetere.

Tra adulto e adulto la relazione funziona quando entrambi riconoscono l’uno all’altro di “essere OK”, al di là dei comportamenti che possono essere valutati positivi o negativi: non c’è la svalutazione dell’altro (se non ci fossi io!) o la percezione di non essere all’altezza del compito (atteggiamento vittimistico) e neppure la convinzione che entrambi non si è in grado di affrontare il problema (sensazione di inutilità). In un gruppo le dinamiche negative fanno nascere scontentezze, polemiche, posizioni demagogiche, isolate o arroganti, ma dove ci si accetta per come si è le relazioni sono aperte e collaborative, il focus è sulla realtà, la modalità è quella del  problem solving.

Poniamo questa rete di relazioni nel contesto di oggi ricco di opportunità e di rischi, fluido, contradditorio, complesso.

A  me pare che questo sia uno dei nodi cruciali della coscienza adulta di oggi: cogliere la complessità, semplificare per quanto serve ad aver cura dell’essenziale, ma senza banalizzare o pretendere di avere soluzioni facili a problemi profondi e dinamiche complicate e diversificate.  È una consapevolezza necessaria, dato che l’adulto costruisce relazioni “qui e ora”. Il pedagogista G.M. Bertin sostiene che  stare nella complessità significa abitare le antinomie (concetti contradditori, ma entrambi giustificabili) dell’esistenza: autorità e libertà, attività e  passività, interesse e sforzo, semplicità e complessità, razionalità e aleatorietà, totalità e insufficienza, novità e esemplarità, successo e scacco. Sono poli tra cui ricercare la posizione, sviluppando la capacità di vivere nelle tensioni che ogni contraddizione pone. La vita è un continuo “apprendistato” in cui ogni ambito diventa formativo  e dove ci si ritrova a coniugare ogni volta dubbio, decisione, scacco.

Per questo assume particolare significato oggi la capacità di narrarsi: il tentativo di esporsi in prima persona nell’autenticità vissuta e nella sfida della comunicazione profonda. Nella storia dei giovani leggiamo oggi tante attività ma poche “esperienze”:  in genere si arriva all’età adulta senza aver avuto molte occasioni di confronto con la realtà e conseguentemente di elaborazione di un pensiero sulla vita. L’adulto è “qualcuno che ha qualcosa da dire”.  Ma è davvero così? COSA dire agli altri, ai giovani? Mi sembra che oggi manchi questa dimensione del contenuto. Si coglie una deriva tecnicistica che prevale sui contenuti e che lascia più poveri. Che cosa ci interessa nel profondo? Quali sono le urgenze più vere? Sappiamo, noi adulti, raccontarci tutto questo?

Il problema è che non sempre ciò accade. Quando ci si confronta è difficile costruire un pensiero condiviso e anche nella relazione più stretta si corre il rischio dell’equivoco, dell’irrigidimento. Riflettendo appare evidente che ciascuno di noi fa riferimento a un modello (di società, di famiglia, di scautismo, di modo di condurre la casa, di vacanza…) costruito nel corso della vita, sulla base dei propri studi, esperienze, relazioni, ambienti.. e che ritiene IL migliore, anzi l’unico possibile. Sono questi modelli che entrano in gioco non appena si affronta un tema relativo ad uno di essi. Nel passato questa dinamica era meno evidente: i modelli di riferimento erano simili, se non gli stessi (pensiamo solo all’idea di famiglia o a come veniva considerata la religione), ma ora non è più così. Il contesto sociale, la cultura sono plurali, ma lo dimentichiamo dando per scontato di parlare della stessa cosa, sorprendendoci di non essere capiti, presupponendo di capire l’altro.

Finché non emergono i modelli impliciti, nostri e altrui, la comunicazione resta difficile se non conflittuale, ciascuno tende a mantenere le proprie posizioni, perdendo così occasioni preziose per essere adulti che “si prendono cura” della relazione con l’altro e che generano un nuovo pensiero possibile. Non è un percorso facile, richiede adultità effettiva, molto ascolto, accoglienza e fiducia.


[1] Il Genitore può essere normativo e affettivo. La funzione genitoriale normativa, nella sua accezione positiva, insegna e offre regole e valori, mentre nella sua accezione negativa, critica, impone, punisce, svaluta. La funzione genitoriale affettiva, nella sua accezione positiva cura e incoraggia, mentre nella sua accezione negativa è iperprotettiva e si sostituisce. La frase tipica è: HAI SBAGLIATO.

 

[2] L’ Adulto nella sua funzione positiva vive oggettivamente la realtà, non drammatizza l’errore e decide in base a ciò che è noto. Se non ben funzionante trascura le emozioni ed i valori e non si cura dei rapporti interpersonali. La frase tipica è: NON È FATTO BENE.

[3] Il Bambino si divide in adattato e libero. Il Bambino Adattato positivo accetta le regole, collabora e agisce per farsi accettare, quello negativo si sottomette alle regole, si compiange e subisce per farsi accettare. Il Bambino Libero positivo fa con gioia, si sottrae all’autorità e non tiene conto delle conseguenze delle proprie azioni. Il Bambino Libero negativo fa ciò che è vietato è oppositivo su qualsiasi proposta. La frase tipica è: NON MI PIACE

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