La linea gialla della metropolitana di Milano è vuota, è un tranquillo venerdì pomeriggio autunnale e salendo al capolinea prendo facilmente posto insieme alla piccola Silvia, seduta nel suo passeggino e incuriosita dalle novità di questo viaggio.
Davanti a noi siedono tre bei ragazzi africani, con felpe, pantaloni e collane colorati, i lunghi rasta e una fervida vitalità contagiosa. Parlano nella loro lingua e Silvia inizia a guardarli con i suoi occhioni leopardianamente “ridenti”.
Uno dei tre si accorge subito di lei e le rivolge un gesto di saluto con la mano, Silvia ride, ritrae un po’ il viso come fanno i bambini quando noi adulti pensiamo si stiano vergognando, e continua a guardarli.
Loro riprendono a chiacchierare, passano alcuni minuti e Silvia inizia a stufarsi di stare ferma nel passeggino, la prendo in braccio e la siedo sulle mie gambe. Ha davanti a sé ancora i tre ragazzi e riprende a osservarli. Loro la salutano di nuovo, le sorridono, le rivolgono qualche espressione affettuosa e improvvisano ritmi battenti con i piedi e con le mani, un piccolo concerto africano metropolitano. Silvia sorride, li guarda con gli occhi che brillano. È felice.
Il treno si sta avvicinando verso il centro città e il vagone inizia pian piano a riempirsi, salgono altri passeggeri che si fermano in piedi tra noi e loro. Silvia non riesce più a vedere i ragazzi di fronte a sé. Si alza allora in piedi sulle mie ginocchia e muove la testa a destra e a sinistra, nel tentativo di schivare con lo sguardo i corpi di chi le sta davanti e ristabilire un contatto visivo con i tre ragazzi. Loro fanno altrettanto. Quegli sguardi che s’erano perduti si incontrano nuovamente tra busti e braccia altrui, i tre ragazzi la salutano ancora e i loro volti si spalancano in sorrisi, anche Silvia sorride e si muove sulle gambette, come se ballasse. È felice.
E allora ecco che il vagone si accorge di quello che sta accadendo, di questa bimbetta di neanche un anno che gioca e ride con tre ragazzi africani. I passeggeri che nel corridoio impediscono i loro giochi si spostano e si stringono tra loro nel tentativo di fare spazio. Si apre così nuovamente il varco. Silvia esplode in un sorriso di felicità. Cerca di scendere dalle mie gambe, vuole andare da uno di loro. La appoggio con i piedini a terra, ancora instabile, non sa camminare né stare a lungo in piedi da sola. Mi fa capire con tutto il suo corpicino che è da lui che vuole andare, che vuole attraversare quel metro e poco più. Sto per alzarmi e accompagnarla, tenendole le manine, ma il ragazzo mi precede. Si avvicina e si accovaccia davanti a lei, occhi negli occhi, e le poggia dolcemente le mani sui fianchi.
«Ciao, sono Salim», le dice parlandole piano e guardandola in viso con quei suoi occhi che arrivano da lontano. «Ciao, io sono Silvia», dico io per lei. Salim resta accovacciato davanti a Silvia e continua a tenerle le mani sui fianchi e la saluta, dicendo con forza il suo nome: «Ciao Silvia, piacere». Molti passeggeri osservano la scena e per un istante mi sembra che la Milano sotterranea da tutti conosciuta per la sua fretta e la sua noncuranza si fermi di fronte a un ragazzone dai colori vivaci addosso che cinge con le sue belle mani color ebano una bimbetta dal k-way bianco ghiaccio.
Prima di tornare a sedersi fra i suoi amici, Salim aggiunge: «Hai visto Silvia, io e te facciamo la pace». Grazie Salim, basterebbe così poco.
[Illustrazione di Ilaria Orzali]
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Leggi per intero “Facciamo Pace“, il numero di PE da cui è tratto questo articolo.
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