Ritirarsi

di Padre Roberto Del Riccio Assistente ecclesiastico generale

Il paradossale stile educativo del Padre

La sfida di ogni autentico educatore è rendere chi egli educa capace di essere autonomo. Il successo dell’azione educativa è raggiunto ogni volta in cui chi è educato è capace di camminare sulle proprie gambe, osservando la realtà dal proprio punto di vista, interpretando le situazioni con il proprio cuore e la propria testa, agendo secondo la propria coscienza. Questa sfida porta con sé un paradosso: il successo dell’educatore coincide con la sua scomparsa. Affinché chi cresce possa diventare capace di stare sulle sue gambe, chi lo educa deve ritrarsi e lasciargli libertà di manovra. Deve permettergli non solo di vivere esperienze di successo, ma anche, e forse soprattutto, di cadere e farsi male, di sbagliare e fallire. È fondamentale però che l’educatore torni a essere presente. Il modo in cui l’educatore saprà farsi vicino dopo la caduta sarà di aiuto o di ostacolo alla crescita nell’autonomia. Un educatore non giudicante, capace di accogliere chi ha sbagliato, può trasformare qualsiasi caduta in un’opportunità di crescita. Tutto questo è vero anche per la relazione tra il Dio di Gesù Cristo e coloro che ha invitato a entrare in comunione con lui. Dio si pone come un educatore nei confronti di chiama a essere insieme a lui per costruire una fraternità sempre più ampia. Gesù chiede un’adesione libera al suo invito, lasciando poi all’interlocutore la scelta di accogliere o meno la via proposta. Tutta la vicenda di Gesù è un progressivo lasciare andare i discepoli. Egli li accompagna, ma mai si sostituisce loro. Dovessero anche sbagliare e fallire. Nel momento della passione e morte di Gesù ciò appare in maniera evidentissima. I discepoli falliscono proprio quando Gesù chiede loro di essere fedeli. Invece, Giuda lo tradisce, Pietro lo rinnega e tutti gli altri, fuggendo, lo abbandonano. Gesù tuttavia sarà di nuovo presente da risorto, per aiutare i discepoli caduti a rialzarsi, rileggendo insieme i fatti avvenuti, per capirli alla luce della Buona Notizia del suo amore fedele. Comportandosi così Gesù non fa altro che applicare il metodo educativo di Dio suo padre. Quale sia questo metodo ce lo mostra la Bibbia attraverso molti racconti. Uno particolarmente immediato è il racconto mitico che mette in scena Dio e due personaggi, Adamo ed Eva, che sono usati dalla Bibbia come figure simboliche: rappresentano ogni uomo o donna nella relazione con Dio (Gen 2,4-3,24). Ad Adamo ed Eva Dio affida tutto ciò che ha creato, il famoso giardino terrestre, e si ritrae, uscendo di scena. Adamo e la sua compagna sono lasciati soli a gestire il giardino e quanto esso contiene. Arriva però un serpente, personaggio che rappresenta la voce del male, che divide, crea disordine e alimenta il conflitto. Il serpente invita Adamo e la sua compagna a non dare retta a Dio. I nostri due cascano nella trappola del serpente e tutto precipita nella dinamica mortifera del male. Un vero e proprio fallimento. Sorge però una domanda: dove era Dio? Già, non c’era. Di fronte al serpente Adamo e la sua compagna erano soli. Secondo il suo stile educativo Dio si era ritirato, affinché ciascuno dei due potesse sperimentarsi e verificare fin dove arrivava la propria adesione al progetto proposto da Dio. Però, così le cose sono andate storte. Vero, ma Dio non abbandona Adamo ed Eva, maledicendo solo il serpente, ma non loro e facendo loro dei vestiti (Gen 3,21). Se Dio si comporta così, è perché desidera far vivere persone che eventualmente commettono errori e magari lo tradiscono, ma sono autonome. È talmente sorprendente questo stile educativo di Dio che gli uomini e le donne fanno fatica a crederci. Così vivono nel timore che se dovessero sbagliare, Dio li condannerà, abbandonandoli e punendoli. Per questo nei racconti biblici un’espressione che spessissimo Dio utilizza è “non temere”. Egli desidera rassicurare ciascuno che anche quando sbagliasse, egli resterà al suo fianco, perché «se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso» (2 Cor 2,13).

[Foto di Nicola Cavallotti]

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