L’ARTE DEL DISCERNIMENTO

di Ruggero Mariani

Ovvero distinguere le voci del cuore per giocarsi in una vita piena. A colloquio con p. Lino Dan s.j.

«Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» è un versetto del salmo 119 che il cardinale Carlo Maria Martini (1927-2012) – gesuita e arcivescovo di Milano, biblista, una delle figure più eminenti della Chiesa degli ultimi decenni – desiderò come epigrafe per il proprio sepolcro.

Padre Lino Dan, suo confratello, ci attesta come queste parole possano guidare nel cammino di crescita spirituale di ognuno: il cuore dell’uomo è un guazzabuglio dove c’è tutto, ed è importante riconoscere ciò che avviene interiormente e saperlo decifrare.

Il discernimento nella vita spirituale riguarda il linguaggio-base dello spirito. Discernere significa vagliare, setacciare, distinguere le voci del cuore che mi abitano per poter prendere decisioni consapevoli, libere e responsabili. Nel XVI secolo sant’Ignazio di Loyola scrisse il libro degli Esercizi Spirituali individuando una serie di regole (il «discernimento ignaziano» è una prassi che richiede una precisa metodologia e un congruo tempo) al fine di compiere le scelte, quelle importanti, e giocarmi in una vita più piena, in un modo migliore e più profondo.

La prontezza a mettermi in un atteggiamento di discernimento è un approccio fondamentale nel lavorìo quotidiano della vita di fede. Se vogliamo, è un approccio molto scout: preserva dal pericolo di percepire gli eventi della vita con distrazione e superficialità, non prendendo magari sul serio i “messaggi” che la quotidianità mi presenta, come suggerisce, fuor di metafora, lo stesso B.-P. nell’undicesima chiacchierata al fuoco di bivacco, in Scouting For Boys.

È inoltre molto scout perché mi chiede di nutrire una grande fiducia in Dio, nel senso di credere, cioè, che egli pone dentro di me i criteri e i princìpi per una scelta giusta. Cercare la volontà di Dio, che spesso non combacia con il “che cosa mi sento di fare”, non è sempre facile. Implica la disponibilità a varcare la mia comfort-zone, per affrontare la fatica di un cammino di cui non conosco il punto di arrivo, ma so che esiste e mi aiuta a dare un senso più compiuto alla mia esistenza.

È un esercizio che mi richiede dunque di “fare il punto”, di dare nomi alle cose, di valutare i pensieri, le azioni compiute, di comprendere come il Signore è presente nel mio cammino, e come io gli corrispondo. Mi chiede di non scappare dalle situazioni e dalle domande profonde – ma anzi desiderando di farle emergere – nella certezza che questo cammino si fa in due: io e il Signore.

In questo dialogo riesco a conoscere meglio me stesso semplicemente facendo a lui spazio, puntando lo sguardo su ciò che egli ha compiuto in me (e non al contrario, su ciò che “io” ho fatto), riconoscendolo, facendo memoria e non dimenticando che la sua presenza (Deuteronomio, cap. 8.) mi fa fare verità con me stesso e mi apre al futuro.

Basta dedicare a questa pratica un po’ di tempo adeguato, soprattutto al termine della giornata, fermandomi e rileggendo le ultime 24 ore… Io stesso ne raccolgo grandi benefici, grazie al confronto con la Parola, che non è semplicemente un testo da leggere: è una presenza viva, che conforta, istruisce, dà luce, forza. “Sostare” nella Parola mi dice anche quanto “so stare” insieme a Gesù nella mia vita, e poter gustare insieme a lui i frutti di questo percorso.

È un po’ la dinamica spirituale che avviene con i discepoli di Emmaus. Se nell’allontanarsi da Gerusalemme i due protagonisti non sono capaci di interpretare gli eventi accaduti, l’incontro con “lo straniero” li aiuta a fare memoria e a discernere ciò che stavano vivendo. Sostare, non dimenticare e riconoscere il Signore, fanno ardere la lampada del loro cuore, illuminando i passi del loro nuovo cammino, orientato ora in una direzione precisa, che porta alla felicità!

Nel brano di Luca, l’agire del terzo personaggio diviene cruciale poiché è ben paragonabile al lavoro della guida spirituale, necessaria per la pratica degli esercizi, che non propone, non impone, ma si mette al mio fianco e mi aiuta a fare luce. Avere il coraggio di non rifiutare lo straniero che mi si avvicina per farmi ragionare, impedisce che mi rinchiuda in me stesso (guardare il proprio ombelico produce il rischio peggiore nella vita spirituale, cioè di autoaccusarmi o di autogiustificarmi), e mi fa alzare lo sguardo anche se intorno c’è il buio, lasciando la possibilità che qualcosa o qualcuno possa manifestarsi, soprattutto quando vivo un tempo negativo. È lì la fede muta, forse quella più profonda, più nuda. Sapere che il Signore tornerà a farsi vivo.

Uno dei frutti del discernimento fatto bene è la perseveranza. Cammino in montagna, magari su un sentiero che individuo a malapena. Attraverso tratti da cui non vedo la cima, ma so che c’è. Procedo anche se non avverto nulla ma, giunto alla vetta, la mia gioia è piena. La perseveranza è la virtù dei tempi difficili. Una fede che resiste alle avversità. Non possiamo pensare di viverla come se fosse un giardino incantato. È bello pensare tutto il cammino scout come una grande metafora di discernimento: scegli di vivere una vita all’insegna della fede e del servizio. È una vita “bella”, marcata da una scelta forte, che cerchiamo di annunciare e testimoniare ai nostri ragazzi.

Non pretendo che il capo divenga un perfetto maestro nella fede, ma che almeno attesti che si può, è possibile vivere una vita di fede! E il capo dovrebbe essere anche una guida spirituale, che sa riconoscere quando un ragazzo gli si pone accanto con dei seri interrogativi (dove vanno i propri desideri, le proprie passioni, le proprie capacità, dove alberga la felicità…), e sa accompagnarlo a farsi le giuste domande, a mettersi nell’ottica giusta, con i giusti criteri, a darsi delle risposte – e non a dargliele. Come capi siamo chiamati ancor di più ad accompagnare i ragazzi nel costruirsi valide mappe esistenziali con le quali si orienteranno nell’oceano della propria vita, a dare un senso alle cose ed a fare quel passo in più (magis) che il Signore ci chiede per essere felici!

p. Lino Dan, gesuita e ingegnere, è vice rettore amministrativo della Pontificia Università Gregoriana. Già direttore tecnico di Radio Vaticana e superiore delle comunità di L’Aquila e di Milano, ha seguito il Clan Universitario di Roma e partecipa alla Formazione Capi abruzzese.

[Foto di Nicola Cavallotti]

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