LA FIDUCIA, LA TESTIMONIANZA, LE SCELTE

di Oscar Logoteta

La Co.ca. non è il tribunale della fede

Una cosa su cui mi sono soffermato spesso a pensare è che siamo fortunati a vivere le Comunità capi. Forse il capo tirocinante o quello alle prime armi potrebbe non cogliere ma… siamo proprio fortunati. Abbiamo la fortuna di vivere un luogo con persone che condividono gli stessi intenti, che hanno aderito allo stesso Patto, che si sforzano tutti e tutte, ognuno con la propria forza e dimensione, a cercare il volto di Cristo nell’altro. Siamo fortunati, perché altri luoghi così, dove una piccola comunità cerca di sostenersi a vicenda nel proprio percorso di Fede, non è assolutamente banale da trovare al di fuori di AGESCI. Un luogo, la Co.Ca., dove non ci si senta giudicati, dove ognuno ha possibilità di esprimere le proprie fatiche ma anche le proprie gioie. Se pensiamo ai luoghi che abitualmente viviamo, come il lavoro, la palestra o simili, ci accorgiamo che la nostra Co.Ca. è veramente un luogo privilegiato di dialogo e ascolto.

Ah, come dite?

La vostra comunità capi non è il luogo idilliaco che ho appena descritto?

Vi sentite giudicati?

Non vi sentite liberi di esprimervi in maniera autentica?

Ecco allora tre punti da terapia d’urto che, se riportati all’interno delle vostre Comunità capi, sicuramente aiuteranno a creare quel clima necessario per considerare la Co.Ca. un luogo accogliente e piacevole in cui la Parola stia davvero al centro.

Punto uno: la Fiducia.

La fiducia in Comunità capi non è da conquistare, va donata. Ripetiamolo tutti insieme. Troppe volte siamo succubi di questa retorica: io tirocinante mi devo guadagnare la fiducia della Comunità capi. Io capo appena entrato mi devo guadagnare la fiducia. Piuttosto dico, io capo tirocinante, vecchio, giovane, appena entrato, che arrivo da Azione cattolica, dall’FSE eccetera, non devo affannarmi a guadagnare fiducia – ma poi, nei confronti di chi? dei capi gruppo? Dei genitori? Non sta in piedi… – devo piuttosto interrogarmi sul come aprirmi alla mia Comunità capi, autenticamente, per camminare insieme. E tutti i membri della Comunità capi possono donarsi vicendevolmente fiducia perché tutti all’interno del solito perimetro: il Patto Associativo – si finisce sempre lì.

Punto due: la Testimonianza.

La Comunità capi non è un tribunale che giudica e misura la fede dei membri di tale comunità. I capi gruppo non hanno in dotazione da AGESCI alcun “misuratore di fede” e mi risulta che ancora non sia stato inventato. Stiamo attenti però, riparandoci dietro al «ho un modo tutto mio di pregare» o ancora «Io ho un rapporto intimo con Gesù» che spesso si traduce in «Ecco il motivo per cui non vado a Messa». Non so quante volte ho affrontato questo tema nella mia Comunità capi. Quello che posso dirvi è quanto ho capito in questi anni. Se voglio coltivare l’amicizia con una persona, la devo incontrare sistematicamente dove Lui c’è e c’è la Sua Parola. Poche scuse, dai che siamo adulti!

E ho utilizzato il verbo coltivare perché quello più appropriato a dare l’idea della cura che si deve avere, come una pianta a cui dai l’acqua nei giorni giusti, nelle ore giuste. E bisogna avere del rigore, della costanza.

Non vi piace il prete che avete nella chiesa sotto casa? Legittimo.

Cambiate chiesa – in senso di edificio, eh – girate chiesa per chiesa fino a quando non troverete un luogo in cui davvero vi sentiate accolti. I preti non sono infallibili, sono uomini come tutti. Può capitare di non percepire un esempio di testimonianza di accoglienza, ascolto, empatia, compassione: caratteristiche che un prete forse dovrebbe avere. Chiediamoci anche quanto noi siamo predisposti a essere accolti – e non giudicati!

Se il prete che non ha quelle caratteristiche è il vostro AE… A cruce salus.

Punto tre: le Scelte.

Aver fatto scelte solide non vuol dire avere un pensiero immutabile nel tempo. Dire a un altro capo della nostra Co.Ca. che nell’ambito “Fede” deve ancora camminare – e chi non deve farlo? – spesso mette in soggezione, ci si sente giudicati… Se la Co.Ca. non ha quella maturità necessaria, un momento così non diventa generativo, anzi, distruttivo.

Il modo migliore per dirlo, in questo caso, è farlo.

Quante possibilità abbiamo come Co.Ca. di camminare insieme, in virtù di quella fortuna di cui parlavo all’inizio dell’articolo, e di vivere un ambiente comunitario, che di certo non è una comunità di vita, ma che può dare un grande aiuto a superare ostacoli che da soli, qualora non facessimo parte di una comunità solida a livello parrocchiale, non riusciremmo a sorpassare. Avere l’esempio in Co.Ca. di persone che hanno fatto scelte solide, e che non siano giudici ma uomini e donne con le braccia aperte e le mani tese, be’, è l’augurio migliore che io possa fare a qualsiasi Comunità capi d’Italia.

Punto extra: l’AE.

Ho vissuto per anni senza un vero e proprio assistente eccesistico in Co.Ca, se non sulla carta. Ho provato cosa vuol dire stare in una comunità capi con un Ae presente e non.

In termini qualitativi, lo scarto è immenso: avere già la fortuna di stare in un ambiente privilegiato come la CoCa descritta sopra, è già tanto, avere poi la fortuna di un ae dedicato a questa, fa fare il salto di qualità. Non può e non deve certo essere tutto trainato da lui – e quanto vorrei dire ufficialmente “o lei” pensando alle tante religiose che aiutano le nostre Co.Ca. – perché nel disgraziato momento in cui questo andrà via, cadrà tutto come un castello di carta.

Insomma, spesso ci lamentiamo delle Co.Ca. senza capire che la Comunità Capi siamo noi. Sei tu. Cara capo e caro capo che stai leggendo questo articolo, utilizzalo nella tua Comunità capi con l’obiettivo di diventare tutti uomini e donne dalle braccia aperte e le mani tese, anche nel vivere il Vangelo e nell’annunciare la Buona notizia.

[Foto di Nicola Cavallotti]

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