La mafia teme chi educa le coscienze

di Carmelo Caruso, Paternò 3

A marzo di quest’anno arriva l’ennesimo atto vandalico contro la sede del Gruppo Paternò 3, in cui faccio servizio come capo del branco. La gravità dell’atto, un incendio, ha portato, la comunità capi  ad interrogarsi più approfonditamente su temi importanti cui forse, non avevamo posto la dovuta attenzione.  Per me è stato un aprire gli occhi su un fatto che ormai avevo accettato come consueto: vivere lo scontro educativo tra due culture, quella del costruire e dello scegliere contro quella del bighellonare e del distruggere.

Può capitare di trovare difficoltà nell’affrontare queste vicende e nel dare loro un’identità, ma ritengo che sia importante condividere alcune riflessioni. Partiamo quindi da una frase di don Peppe Diana: “Come battezzati in Cristo, […] ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione”.

Vivere in Sicilia impone ad ognuno di noi di fare una scelta. Vivere in qualunque luogo impone una scelta, ma in una terra come la nostra questa scelta si caratterizza in modo ben preciso. Stare con lo Stato, la giustizia, l’amore oppure con la mafia: “Non mi interessa sapere chi sia Dio, mi basta sapere da che parte sta” (ancora, Peppe Diana).

Ma chi o cosa è la mafia? Nell’immaginario collettivo le prime cose che vengono in mente pensando alla mafia sono i soldi, le armi, gli attentati e le sparatorie, il pizzo e le minacce, i bunker in cui si nascondono i latitanti, e sicuramente la mafia è tutto questo! Poi ci sono gli eroi che la combattono con le loro gesta straordinarie.

La maggior parte di noi, probabilmente, riterrà esaustiva questa descrizione del fenomeno. Chi tocca con mano la mafia? Solo chi ha il coraggio per affrontarla. Chi, come Falcone e Borsellino, è disposto a rischiare follemente la vita e diventare un eroe!

La realtà è più complessa di così: tutti noi, i più coraggiosi e i meno coraggiosi, abbiamo a che fare quotidianamente con questo fenomeno.

Spesso ci accorgiamo che c’è qualcosa che non va solo quando avvengono dei fatti eclatanti, che ci scuotono: un omicidio, un arresto, un sequestro di grosse quantità di droga o armi. E’ lì che individuiamo la presenza della mafia, quando, ogni tanto, esce allo scoperto con questi avvenimenti. “Per fortuna”-pensiamo-“non è una cosa che ci tocca direttamente, non ci cambia la vita più di tanto. Sono questioni di magistrati, carabinieri e politici, è loro il compito di occuparsene, noi non abbiamo la presunzione certo di sostituirli. Che cosa ci potremmo fare?”

La mafia si infiltra nel nostro stile di vita, governa il nostri status economico, tenore di vita, costumi, etica. E, viceversa, il nostro stile di vita può favorire od ostacolare il fenomeno mafioso. E’ un fenomeno che pregna la nostra quotidianità e spesso rischiamo di non accorgerci  che ce lo abbiamo di fronte costantemente.

Il terreno di coltura da cui trae linfa vitale è anche un certo tipo di status culturale che, purtroppo, è assai diffuso: il ragazzo di strada spaccone e che va in giro con gli amici a vandalizzare qualunque cosa gli capiti sotto tiro con il magico potere di essere invisibile in pieno giorno, il vicino di casa che getta l’immondizia per strada e che non puoi permetterti di rimproverare perché “è meglio che ti fai i tatti tuoi se vuoi stare tranquillo”, i cittadini che preferiscono non vedere per non avere complicazioni. E poi i piccoli casi di microcriminalità: le rapine, anche a opera di ragazzini, i furti.

Quante volte ci troviamo a dire “queste cose solo da noi succedono, non cambieremo mai”.

E’ una cosa che rischiamo di accettare, come normalità, abitudine. Certo in modo inconsapevole. Ma non innocente! Non ci è concesso essere inconsapevoli del fatto che la mafia è un fenomeno quotidianamente vicino a noi e ai nostri ragazzi tramite quella “normalità”, perché questa mancanza di consapevolezza potrebbe generare scelte inconsapevoli, e questo non ci può appartenere come movimento educativo. Non ci è concesso essere inconsapevoli che essa si alimenta di uno status culturale, un sistema di valori , abitudini, atteggiamenti e scelte quotidiane, che ci circondano e che rientrano in pieno nel nostro campo, l’educazione.

I valori che lo scautismo insegna sono tutti, dal primo all’ultimo, di segno totalmente opposto a quelli mafiosi. E, viceversa, la mentalità mafiosa viola tutti, dal primo all’ultimo, i valori che lo scautismo trasmette.

Chi pensiamo che siano i nemici principali delle organizzazioni criminali? I magistrati, le forze dell’ordine, i testimoni di giustizia?

Il loro nemico principale, colui che temono di più, è, in realtà, l’educatore. Per questo motivo la mafia e la camorra hanno ucciso Pino Puglisi e Peppino Diana. Cosa avevano fatto loro per infastidirli? Non avevano scavato trincee o sparato colpi, né denunciato il pizzo, testimoniato contro i boss, condotto indagini ed emanato mandati di cattura.

La loro pericolosità stava nel fatto che avevano cercato di educare le coscienze dei loro parrocchiani, adulti e ragazzi, ad una cultura di libertà, di scelta consapevole, democrazia, servizio, uguaglianza, amore, non sottomissione ai privilegi e alla prepotenza. Avevano intaccato la fonte del potere mafioso, il silenzio. Per amore del loro popolo non tacquero. Se viene a mancare una cultura succube, priva di coscienza civica e politica, di speranza di prospettive alternative e di fiducia nella giustizia dei giusti, allora la mafia si trova da sola, non attecchisce più, e muore.

Forse pensiamo di essere diversi da Peppe Diana. Lui faceva quello che faceva perché era Peppe Diana, mica uno qualunque come noi! Se pensiamo questo dovremmo riflettere seriamente sulla nostra adeguatezza nell’essere educatori, nello stare al di fuori della zona grigia. Peppe Diana faceva quello che faceva semplicemente perché era un capo dell’Agesci, e quello era il dovere di ogni capo dell’Agesci: educare. Aveva capito bene qual era il suo ruolo in una terra infestata dalla camorra. Non era animato da alcuno spirito eroico, ma era spinto solo dal Vangelo, dalla Promessa e dal Patto Associativo.

Per farlo ci aveva messo un po’ più di coraggio rispetto ad altri, perché per fare l’educatore ci vuole coraggio, e fede nella Giustizia. 

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