Nessun uomo è un’isola

scritto da don Michele Tomasi (docente di Dottrina sociale della Chiesa Studio teologico accademico – Bressanone)

Sembra quasi ovvio ricordare che ogni azione e ogni scelta delle persone, dei gruppi e delle istituzioni all’interno della società devono tendere al bene comune. Sembra ovvio, perché nessuno che si trovi a prendere decisioni nell’arena pubblica sarà mai disposto ad ammettere di procedere mosso solamente dall’interesse personale o di gruppo.

Vale in proposito una breve notazione di papa Francesco nella sua esortazione apostolica Evangelii Gaudium: “La dignità di ogni persona umana e il bene comune sono questioni che dovrebbero strutturare tutta la politica economica, ma a volte sembrano appendici aggiunte dall’esterno per completare un discorso politico senza prospettive né programmi di vero sviluppo integrale” (EG, 203).

Meno ovvio diventa quando tentiamo di definire più precisamente e più concretamente che cosa sia il bene comune di una data comunità, di una società, di un insieme di persone e di istituzioni in un determinato contesto. Il bene comune è, innanzitutto legato al bene di ogni singola persona umana: “dalla dignità, unità e uguaglianza di tutte le persone deriva innanzi tutto il principio del bene comune, al quale ogni aspetto della vita sociale deve riferirsi per trovare pienezza di senso” (Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Libreria editrice vaticana, 2004, 164).

“Nessun uomo è un isola” (l’espressione risale al poeta e predicatore inglese del XVII secolo John Donne): siamo in profonda relazione gli uni con gli altri. Noi tutti siamo costituiti dalle relazioni che abbiamo con Dio, con le altre persone, con l’ambiente, con le cose.

Ciascuno di noi è originato dalla relazione tra mamma e papà; entriamo in un mondo costituito da una lingua, una cultura, una tradizione, in un mondo di ruoli e di istituzioni, in una cultura materiale.

Entriamo in un mondo di ruoli e di istituzioni ai quali siamo socializzati e che nel corso del processo di apprendimento e di educazione noi interiorizziamo, facciamo nostri. Possiamo modellare la nostra interiorizzazione dei ruoli, possiamo adattarci in molti modi, possiamo anche in parte più o meno grande modificarli ed innovare, a seconda della nostra più o meno ampia dose di creatività, ma l’esistenza di legami e relazioni non può essere messa in dubbio senza mettere in discussione la stessa persona umana.

Se al centro di ogni riflessione e di ciascun impegno sta la «dignità, unità ed uguaglianza» di ogni persona, nessuno può vedere difese queste dimensioni in isolamento, il bene di ciascuno ha una dimensione essenzialmente sociale, il bene di ciascuno non può che essere all’interno di una rete di relazioni, non può che essere in comune, non può che essere «bene comune». Ciò significa però anche che tale bene non è semplicemente la somma dei «beni» individuali, visti uno accanto all’altro. Se il mio bene sta nella relazione autentica che riesco a stabilire con gli atri, se la mia vita è intessuta in una fitta rete di relazioni, per definire il mio bene devo tener conto di quello degli altri: “essendo di tutti e di ciascuno [il bene] è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro” (CDSC, 164).

A ben guardare, quindi, l’esigenza posta alla nostra vita dalla centralità del bene comune è tutt’altro che ovvia o scontata: significa infatti che quando penso a realizzare il mio bene devo necessariamente pensare a realizzare quello delle persone con cui sono in relazione, altrimenti io stesso non sono in grado di raggiungere il mio bene. L’attenzione al bene comune mi richiede anche di essere disposto a vedere il bene degli altri non solo come condizione del mio, ma anche come un valore in sé, per il quale debbo essere disposto a donarmi: “il bene comune è conseguente alle più elevate inclinazioni dell’uomo, ma è un bene arduo da raggiungere, perché richiede la capacità e la ricerca costante del bene altrui come se fosse proprio” (CDSC, 167), anche quando non riesco a vedere il legame tra il bene degli altri e il mio.

Quando poi mi rendo conto che la rete di relazioni che mi costituiscono non si riduce a quelle a me più vicine, ma che è nei fatti ampia quanto il mondo, nell’inesauribile tessuto del mondo globalizzato, mi rendo conto che il richiamo al bene comune è tutt’altro che un abbellimento retorico di scarso rilievo pratico.

A questo punto possiamo cogliere il significato della definizione di «bene comune» che troviamo nella costituzione pastorale del Concilio Vaticano II Gaudium et spes, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo: per «bene comune» s’intende “l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente” (GS, 26).

Raggiungere il bene comune è compito della politica e di tutti i componenti della società, delle famiglie, delle associazioni, dei mercati e delle imprese, delle istituzioni locali come di quelle internazionali. La convivenza sociale deve essere organizzata così da permettere a ciascuno – assieme agli altri! – di svilupparsi pienamente, di realizzare in pienezza la propria vocazione. Bisogna terne conto di come ciascuno comprende il suo bene, ma dobbiamo essere anche disposti a discutere insieme, a livello politico, di quali siano le dimensioni del bene cui non possiamo o non vogliamo rinunciare, per giungere davvero ad una società che faccia spazio a tutti. Ci sono comunque delle dimensioni che non possono mancare. “Tali esigenze riguardano anzitutto l’impegno per la pace, l’organizzazione dei poteri dello Stato, un solido ordinamento giuridico, la salvaguardia dell’ambiente, la prestazione di quei servizi essenziali delle persone, alcuni dei quali sono al tempo stesso diritti dell’uomo: alimentazione, abitazione, lavoro, educazione e accesso alla cultura, trasporti, salute, libera circolazione delle informazioni e tutela della libertà religiosa” (CDSC, 166).

La breve lista presenta già un insieme di punti che potrebbero dare sostanza ad un’azione politica, basata su un ampio e profondo impegno educativo, che riceverebbe nuovo impulso e rinnovata dignità. Ma nemmeno questa dimensione le esaurisce tutte: nella ricerca del bene non possiamo limitarci a quanto è possibile nell’orizzonte di questo mondo, perché altrimenti non riusciamo a cogliere la verità profonda dell’uomo e della società, e limitiamo le possibilità di bene che possiamo realizzare: “Dio è il fine ultimo delle sue creature e per nessun motivo si può privare il bene comune della sua dimensione trascendente, che eccede ma anche dà compimento a quella storica. Questa prospettiva raggiunge la sua pienezza in forza della fede nella Pasqua di Gesù, che offre piena luce circa la realizzazione del vero bene comune dell’umanità. La nostra storia — lo sforzo personale e collettivo di elevare la condizione umana — comincia e culmina in Gesù: grazie a Lui, per mezzo di Lui e in vista di Lui, ogni realtà, compresa la società umana, può essere condotta al suo Bene sommo, al suo compimento” (CDSC, 170).

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