Essere capi e capo può essere faticoso, eppure la nostra vocazione e il nostro impegno ci invitano ad accogliere le difficoltà provando a non fuggire davanti alla stanchezza, alla paure e alle ferite, e a provare ad accompagnare quanti ci sono affidati a fare altrettanto.
“La fatica che porta frutto”: ricordo di aver risposto così alla capo che – a Villa Buri, in una delle Botteghe di futuro della Route Nazionale – aveva chiesto cosa ci venisse in mente pensando al nostro essere capi, al nostro servizio. Lo ricordo nitidamente perché quella fatica che porta frutto, nella mia mente, si era prefigurata come una salita, non una qualunque. Uno di quei tratti di strada costellati di piccoli momenti, brevi conversazioni, immagini semplici, che restano dentro – perché alla memoria, com’è noto, si attacca meglio ciò che emoziona.
Cammino sotto il sole di maggio fissando lo sguardo ora sul paesaggio, ora sulla ghiaia che scricchiola sotto i miei passi, e penso a quanto sia felice di tornare a far strada con i rover e le scolte, scarponi diversi, occhi nuovi, ma stesso cuore di quando ero scolta. Mi si fa accanto Vito, accaldato e con la testa china, sorrido e gli chiedo come stia. Mi risponde con la spontaneità disarmante che ho imparato ad apprezzare in questi mesi di noviziato: “È faticoso”. Cerco in silenzio le parole per replicare, qualcosa che lo incoraggi, che lo sproni, qualcosa di saggio? Alla fine dico semplicemente qualcosa che sento – così, sul momento – risuonarmi dentro: “È giusto ed è bello che sia così”. Non voglio aggiungere che presto arriveremo in cima e che da lì la vista sarà appagante, preferisco che scopra da solo quel senso di pienezza, ma mi riprometto di chiedergli allora se ne sia valsa la fatica.
Proseguo ancora un po’, fin quando sento la voce entusiasta di Desirée che ha notato sul ciglio del sentiero un dente di leone e vuole assolutamente soffiarci sopra per esprimere un desiderio. Mi fermo, giusto il tempo di catturare la scena, e mi sorprendo di come un’infruttescenza così piccola e leggera possa ridare slancio, soppiantando la fatica.
Quante volte, nel servizio associativo, lo abbiamo sperimentato? Essere capi è faticoso. E per quanto sentiamo che è giusto ed è bello che sia così, questa consapevolezza non ci risparmia la fatica.
B.P. è stato molto chiaro: “Nell’occuparvi dei vostri Scouts aspettatevi delusioni ed insuccessi. […] Dovrete sopportare pazientemente, almeno in qualche misura, critiche irritanti e pastoie burocratiche; ma la vostra ricompensa verrà”¹. Eppure, nemmeno la rassicurazione di una ricompensa allevia la fatica, esattamente come la promessa della vetta e di un bel panorama non alleggeriscono lo zaino.
Quante volte ci siamo detti che essere capi è meraviglioso, ma sarebbe più facile se ci impegnasse qualche giorno in meno, se non richiedesse tutte queste energie, se lo scautismo non coinvolgesse così tanto tutti gli altri aspetti della nostra vita? Se ci costasse meno sforzi insomma? Del resto, se Gesù nel deserto ha dovuto affrontare la tentazione di buttarsi giù dal tempio e farsi sorreggere dagli angeli del Padre perché il suo piede non avesse “a urtare contro un sasso”, non è poi così strano che anche noi siamo tentati dalla possibilità di evitare la fatica. La chiave di volta credo stia tutta nell’attitudine con cui, resistendo alla tentazione, decidiamo di camminare attraverso la complessità e le difficoltà del nostro servizio, rendendo sacro (sacrificium, sacer facere) il tempo che vi dedichiamo.
Fatisco, in latino, vuol dire aprirsi, incrinarsi, ed effettivamente la fatica apre una crepa dentro di noi. Ci mette in crisi, ci fa dubitare della nostra “adeguatezza al compito e al ruolo di educatore”, talvolta ci fa pensare che non abbiamo più la forza per continuare a camminare. Ebbene, sapete cosa aveva consigliato la dea Ecate a Teseo per raccogliere le energie e diventare abbastanza forte da sconfiggere il Minotauro? Di mangiare per trenta giorni di fila solo denti di leone.
Mi sono chiesta a lungo cosa Dio volesse suggerirmi quel pomeriggio di maggio. Forse che essere capi è faticoso, ma ogni sforzo passa in secondo piano se ci fermiamo a guardare i nostri ragazzi che crescono e sognano. Che, nutrendoci del loro entusiasmo, possiamo recuperare le forze e ritrovare lo slancio. Che, se riusciamo a farci terra buona, in quelle crepe e fenditure possiamo accogliere i semi dei loro desideri, quelli su cui scelgono di soffiare e che il vento del buon Dio sospinge sulla nostra zolla affaticata, perché la fatica porti frutto e la nostra gioia sia piena.
[Foto di Valeria Leone]
Nessun commento a "La fatica che porta frutto"
I commenti sono moderati.
La moderazione potrà avvenire in orario di ufficio dal lunedì al venerdì.
La moderazione non è immediata.
I tuoi dati personali, che hai fornito spontaneamente, verranno utilizzati solo ed esclusivamente per la pubblicazione del tuo commento.