È la Strada che ci fa discepoli

di Stefano Nova

I discepoli sono uomini e donne che camminano seguendo Gesù, lasciandosi coinvolgere nella propria interezza: cuore, mente e corpo. I discepoli sono uomini e donne che ascoltano e sanno che solo così imparano a stare nelle possibilità di incontro che la Strada offre con Amore.

“Seguimi”.

Questa parola ricorre spesso nei testi evangelici. Gesù la usa più volte: ad esempio, quando chiama Levi, esattore delle tasse (Mt 9,9, Mc 2,14, Lc 5,27-28); o anche quando, camminando lungo il mare di Galilea, incontra Simon Pietro e suo fratello Andrea, a cui rivolge la promessa: “Vi farò pescatori di uomini”(Mt 4,18-20, Mc 1,16-18); infine, è la stessa parola che Gesù risorto rivolge a Pietro dopo la pesca miracolosa (Gv 21,19).

Nella forza travolgente della sua semplicità, questa parola di Gesù trasforma le vite delle persone a cui è stata rivolta e, allo stesso tempo, rivela le caratteristiche di chi vive alla luce dei suoi insegnamenti: i discepoli sono uomini e donne che camminano. Gesù – quando chiama – non dice “fermatevi qui” oppure “restate con me” come fa in altre occasioni; è invece molto chiaro: “Seguimi”.
Il termine greco riportato nei Vangeli per questa chiamata – ἀκολουθέω (akolouthéō) – ci aiuta a comprendere questo particolare aspetto. Infatti, tra alcuni dei suoi significati principali troviamo:

  • seguire fisicamente (camminare, andare dietro a una persona);
  • seguire come discepolo (aderire a un maestro, seguire – per l’appunto – i suoi insegnamenti);
  • essere servitore;
  • accompagnare (cioè essere un compagno: al “seguire” propriamente detto si aggiunge lo stare con).

Risulta chiaro come il discepolo non possa che essere un camminatore; è altresì evidente come quella chiamata – la Vocazione per eccellenza – coinvolga tutto: cuore, mente, corpo.
Per riconoscerci discepoli – nell’accezione originaria e più vera e profonda – come capi e capo in AGESCI, possiamo provare a delineare due aspetti peculiari del nostro servizio e, prima ancora, della nostra vita.

Il discepolo è colui che impara. E, per imparare, non ci sono molte strade: bisogna saper ascoltare. Saper ascoltare il Signore, quello a cui ci chiama. Saper ascoltare quello che il territorio che abitiamo ci chiede, il grido dei poveri e degli esclusi, di chi è ai margini. Saper ascoltare gli altri fratelli e sorelle con cui viviamo il nostro servizio educativo. Saper ascoltare anche i lupetti e le coccinelle, gli esploratori e le guide, i rover e le scolte che la stessa Comunità capi ci ha affidati. Saper ascoltare sé stessi, per essere capaci di vero ascolto verso tutti.

Papa Francesco, in occasione della 56a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, ci ha consegnato queste parole: “L’ascolto, in fondo, è una dimensione dell’amore. Per questo Gesù chiama i suoi discepoli a verificare la qualità del loro ascolto. «Fate attenzione dunque a come ascoltate» (Lc 8,18): così li esorta dopo aver raccontato la parabola del seminatore, lasciando intendere che non basta ascoltare, bisogna farlo bene. […] Tutti abbiamo le orecchie, ma tante volte anche chi ha un udito perfetto non riesce ad ascoltare l’altro. C’è infatti una sordità interiore, peggiore di quella fisica. L’ascolto, infatti, non riguarda solo il senso dell’udito, ma tutta la persona. La vera sede dell’ascolto è il cuore”.
E ancora, scriveva Mons. Andrea Ghetti – Baden: “È Capo colui che sa fare propri i desideri degli altri, ponendosi al loro servizio. Gli uomini hanno bisogno di essere capiti ed amati […]. Basta saper ascoltare, con pazienza, e donare: poco o molto non importa. […] E qui lo Scautismo appare come la più vera scuola di Capi. Il Capo impara ad ascoltare i sogni del Lupetto, forse appena bisbigliati, o ad accorgersi del tumultuoso mondo interiore dello Scout, o a sondare, con rispettosa attenzione, i segreti del giovane che si apre alla vita. È questa un’esperienza di uomini, il cui valore resta per sempre”.

Il discepolo è colui che cammina. Il discepolo sa mettersi sulla strada e ha il desiderio profondo di farlo. Una strada reale, vera, che non ammette finzioni. Mettersi sulla strada significa riscoprirsi umili e piccoli, in questo tempo in cui le possibilità date dalla tecnica vogliono fare credere all’umanità – o meglio, ai potenti – di essere padroni di tutto e di poter controllare ogni cosa. Significa fare fatica, perché la strada è fatta “di passi, di fatica e sudor” e significa verificarsi – che altro non è che “fare il vero” – in quella fatica, lontani dalle maschere delle nostre troppo spesso frenetiche vite quotidiane. Significa riscoprire la nostra vera natura, il nostro bisogno profondo e autentico di relazione: con gli altri, con la natura, con l’Altro. Significa ricordarci che anche la strada va preparata con cura, con attenzione, con competenza: in altre parole, con amore. È la Strada che insegna e ci fa crescere, se solo siamo capaci di ascoltare – veramente – quello che ha da dirci.

Gesù, che ha invitato i discepoli a seguirlo – e che chiama anche noi, ogni giorno, a fare lo stesso -, manifesta ancora una volta il suo amore per l’uomo quando si pone a fianco dei discepoli che, pochi giorni dopo la crocefissione, scendevano verso Emmaus. Mi piace pensare che il Signore, che si avvicina e cammina con loro, li prenda per mano come a dire: “Vi ho chiesto di seguirmi, ma ora mi metto al vostro fianco, perché possiate camminare con me”. E già in quel momento ardeva loro il cuore, prima ancora che lo riconoscessero nello spezzare il pane. Quell’incontro, quegli insegnamenti, quella condivisione del pane non possono lasciarli indifferenti: e infatti ripartono senza indugio verso Gerusalemme, da cui si erano appena allontanati frettolosamente. Ma la gioia è così grande che la fatica del cammino non si sente.

Che la nostra vita e il nostro servizio possano farci vivere nella gioia e nella fatica della Strada, che è maestra, certi che sempre siamo amati da colui che ha detto di sé “Io sono la Strada, la Verità e la Vita” (Gv 14,6).

[Foto di Francesca Santeusanio]

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