“Un Capo è un compagno leale su cui si può contare. Colui che se ne va, solo, alla ricerca della bellezza, e che porta agli altri, e che ve li conduce”. Questa frase di Lezard accompagna la riflessione su chi sia il capo oggi e su come, a volte, anche l’inadeguatezza sia preziosa.
Da giovane capo reparto il Libro di Lezard è sempre stato un piccolo, prezioso, punto di riferimento. I capi Campo del mio CFA ne inserirono un brano nella traccia del deserto: “Che io faccia della mia vita unicamente una cosa semplice e retta, simile a un flauto di canna che tu possa riempire di musica” (Tagore). Racconta della semplicità e della profondità dei valori dello scautismo con uno sguardo di giovane donna. Forse per questo l’ho sempre sentito così intensamente vicino. Lo leggevamo insieme, io e le mie guide, soprattutto con le più grandi, inserivo dei brani nelle tracce dei loro hike, dei loro deserti, qualche volta per i consigli della Legge e, con l’alta squadriglia, lo abbiamo letto in vetta a una montagna.
Lezard scrive così: “Un Capo è un compagno leale su cui si può contare. Colui che se ne va, solo, alla ricerca della bellezza, e che porta agli altri, e che ve li conduce”. Mi sono sentita sempre inadeguata al cospetto di questa definizione. Anzi, paradossalmente, mi sento più impreparata ora che trent’anni fa. Il senso di inadeguatezza che caratterizzava il mio modo di essere giovane capo si manifestava soprattutto nel rapporto con i genitori, nella costruzione della relazione con le guide e gli esploratori, nell’applicazione coerente e consapevole degli strumenti del metodo, nella ricerca dell’intenzionalità educativa.
Oggi, invece, si manifesta nella difficoltà di gestione di una comunità di adulti, nella ricerca delle parole giuste per scrivere una mozione, nella partecipazione alla costruzione del pensiero associativo, nell’accettare che lo scautismo “non è più quello di una volta” e che ho davanti a me due strade: stare a guardare ed essere semplicemente nostalgica o diventare protagonista del cambiamento. Mi sento inadeguata di fronte alla storia, alle nuove tecnologie, alla parola amore con tutte le sue sfaccettature, alle intelligenze artificiali, alla politica che non c’è più, alla necessità di dover funzionare.
Considero, allora, un valore la sensazione di sentirmi fallace, inquieta, non all’altezza, di essere quella che si scontra ancora con l’errore, ma che dall’errore trova stimoli nuovi per formarsi, informarsi, dedicarsi alle letture di oggi e riscoprire le letture di ieri, impegnarsi a decodificare i bisogni delle nuove generazioni, studiando, moltiplicando le esperienze e gli incontri nella consapevolezza che è l’interdipendenza tra pensiero e azione che costruisce interventi educativi efficaci.
Il capo è un compagno leale. Mi sono impegnata a esserlo, non ci sono riuscita sempre. Camminare accanto ai ragazzi esige fedeltà, dedizione, impegno, studio, competenza. Qualche volta hanno vinto la pigrizia e il disinteresse e non ho coltivato la relazione; ho intercettato esigenze e bisogni in modo superficiale. Ho fatto coincidere le mie aspettative personali con i traguardi educativi. Non ho saputo gestire il fallimento.
Il capo va alla ricerca della bellezza. La bellezza è speranza, chi scorge bellezza sa che è il dono che Dio fa agli uomini. Quante volte nella mia vita ho rinunciato a cercarla e mi sono accontentata del materialismo della superficie.
Il capo porta la bellezza agli altri. La difficoltà della testimonianza, l’impegno dell’annuncio. Ho ben presente a me stessa le volte in cui le mie parole non sono state credibili perché non incarnate in un agire autentico.
Il capo conduce alla bellezza. Sono capace di abitare questo mondo con conoscenza e consapevolezza così da accompagnare i ragazzi alla sua scoperta e alla sua decodifica? Forse non pienamente perché la complessità di quest’epoca mi disorienta.
Condividiamo, allora, questo elogio dell’inadeguatezza! Senza paura e vergogna. Impariamo a riflettere in modo critico su noi stessi, riconoscendo limiti e punti di forza, investiamo sulla nostra formazione permanente, impariamo a cambiare opinione, coltiviamo la curiosità, nutriamo la nostra spiritualità, chiediamo aiuto a capi più esperti, formiamoci anche fuori dai contesti associativi, ascoltiamo i ragazzi e, qualche volta, facciamoci indicare la strada anche da loro. Il capo è quello che sta in cima alla fila e che sa la strada. Sentirci non all’altezza non ci esime da questa responsabilità. Significa essere adulti. Ma può capitare che, al bivio, io non riesca a imboccare il sentiero giusto. Allora mi fermo, leggo la carta con gli altri, capi e ragazzi, per capire la giusta direzione e riparto. A volte la fila la chiudo e lascio andare avanti i più grandi, oppure mi metto accanto a chi cammina più lentamente o a fianco di chi va troppo veloce. Solo così si impara a essere e non solo a funzionare.
[Foto di Francesca Santeusanio]
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