CO.CA. ALLO SPECCHIO LO SPECCHIO DELLA CO.CA.

di Antonella Cilenti

Con un invito a “litigare bene”

 

Qualcuno obietterà che non ha senso parlare di pace in associazione in un periodo in cui la guerra è alle porte, ma io sono fermamente convinta che in AGESCI ogni strumento o struttura sia sostanziata da scelte solidali e non violente e che non esiste un impegno di pace nelle alte sfere della società se non ve n’è uno, incalzante nel quotidiano. Come esercita uno scout il suo essere “artigiano di pace” (cit. don Tonino Bello) con il suo servizio? Qui entra in gioco la Comunità capi come palestra di relazione tra diversi, tra persone che condividono lo stesso obiettivo educativo, utilizzando il metodo scout, e che devono avere la capacità di guardarsi allo specchio e scoprirsi enantiomeri: coppie speculari ma non sovrapponibili in quanto ognuno è unico ed irripetibile. Questo sarebbe un buon punto di partenza per parlare dei ragazzi con la pace nei cuori. Penso a quella scolta che, assegnata al reparto, non è mai venuta in orario a Messa, ha sempre una festa e la domenica vuole dormire e io: «Glielo avevo detto ai capi clan che era una fesseria mandarcela in reparto; la colpa è loro che per primi non trovano un momento per andare a Messa di clan e non danno alla comunità un tempo di costanza e coerenza; dunque: cosa pretendiamo dai ragazzi?». Cosa guardiamo nello specchio: il ragazzo in questione, il capo che lo sta seguendo nel suo percorso o noi stessi? Chi vogliamo trovare dall’altra parte dell’immagine? Perché se vogliamo trovare un altro noi, purtroppo la scolta perderà il ruolo di centralità del nostro operare e il nostro metro sarà dettato dal giudizio su di lei o peggio sui suoi capi. Saremo sconfitti due volte: non avremo capito i bisogni educativi del ragazzo e vivremo la coca come tribunale del capo.

Per pensare ai ragazzi, quindi, pace nei cuori!! Che non significa essere capi imbalsamati, persone finte, che alla luce della tanto invocata correzione fraterna non si dicono più nulla, rifuggono il conflitto. Penso a quelle serate di Comunità capi seduti nel terzo girone dell’inferno dove siamo in grado di farci piacere l’esatto contrario di quanto pensiamo! La mia non è un’istigazione alla lite ma un invito a litigare bene perché peggio che litigare è rinunciare! Invece «giustizia e pace si baceranno» recita il salmo 85 e don Tonino, vescovo della Pace, ci racconta che la pace è sempre «a caro prezzo». La si consegue con sacrificio, impegno, conoscenza della realtà e coinvolgimento personale. Litigare bene significa impegnarsi ad accogliere, liberarsi dai propri filtri, parlare come vorremmo che ci parlassero, gesticolare trasferendo la sensazione di una carezza, dire la propria con onestà, anche se può far male, ma con la voglia di curare e non di ferire. Ci sarà capitato di sentirci vulnerabili e attaccati ma se quello che ci è stato detto, seppur con fatica, con il passare dei giorni, promuove una rilettura della situazione, una possibilità di cambiamento, allora sarà servito cantarsele! Sarà servito litigare e coniugare la parola pace con combattività perché a te ci tengo, piuttosto che con neutralità perché di te non mi interesso più. La Comunità capi poi, vissuta come esercizio di relazione, è la base per poter essere figure formative e di rappresentanza in futuro, penso al ruolo di responsabile di zona, responsabile regionale o membro di comitato nazionale. Che brutta aria che tira in certi consessi associativi, dove talvolta ci si specchia fedelmente in una non virtuosa politica nazionale! Niente enantiomeria ma solo immagini speculari e del tutto sovrapponibili di gente! Nessuna valorizzazione della individualità! Il nostro è uno stile che passa dal dialogo, dalla gioia e dalla lealtà; se nelle nostre riunioni a tutti i livelli non si respira questo, stiamo negando il nostro essere scout e il nostro essere cristiani.

All’inizio parlavamo della ricchezza in AGESCI di strumenti con un preciso valore pedagogico, legati alla scelta fatta di educare secondo il Patto associativo, con la volontà quotidiana di incidere sui temi della pace, non violenza e solidarietà; vorrei accendere i riflettori su uno strumento proprio della Comunità capi: il Progetto educativo! È strumento di azione sul territorio o obbligo burocratico, adempimento delle Comunità capi, cartacce scritte e rispolverate solo quando richieste in zona, ai campi di formazione? Negli ultimi anni vedo Comunità capi addormentate sul territorio, che lo descrivono, nell’analisi esterna, come quadro bucolico; sfoglio progetti educativi di gruppi che vivono in territori stravolti dal cambiamento, ma di esso non c’è traccia nella fine operazione di copia incolla che viene fatta nella stesura del progetto educativo. Penso al mio territorio: il ripresentarsi di attività di stampo mafioso nella città vecchia, il continuo rimpasto degli esponenti politici e l’assenza di figure nuove che possano infiammare l’animo dei giovani, l’arrivo di altri migranti da Paesi in guerra che hanno un’estrazione socio-culturale completamente diversa da quella degli ultimi flussi migratori, per le Comunità capi della città sono notizie da leggere distrattamente, sono universi paralleli all’azione educativa? Io spero di no, bisogna reagire, bisogna armarsi dei nostri strumenti, dal progetto educativo nasce l’impegno concreto a cui è orientata l’azione educativa.

Mettiamo uno specchio nella stanza di Comunità capi e specchiamoci sempre in gruppo, ci restituirà il senso dell’essere lì; mettiamo uno specchio fuori della stanza di Co.ca. e riprendiamo a osservare con attenzione il mondo.

[Foto di Dario Cancian]

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