CHI INSEGNA A PARTECIPARE?

di Nicola Cavallotti

Fra derive individualiste e nuovi spazi partecipativi ragazzi e ragazze si scontrano con una società che non educa alla partecipazione. Dialogo con la professoressa Antonia Rubini

Nicola Cavallotti

Un dialogo sul rapporto tra giovani e politica sembra avere oggi un sapore malinconico, come di quelle cose che appartengono a un’epoca passata, lontane dalla grammatica del mondo odierna. Oggi pensando ai bisogni di ragazzi e ragazze, si pensa altro: la salute, lo studio, il lavoro, l’emancipazione. Categorie associabili al benessere personale, ritenute fondamentali per l’autoaffermazione del singolo in una società piena di tante e svariate crisi, frammentate per un verso, ma collegate da invisibili fili rossi per l’altro. Da dove partire per raccontare un fenomeno sociale di importanza strutturale per ogni società che ambisca a ritenersi democratica, come la partecipazione giovanile alla politica latu sensu? Ne parliamo con la professoressa Antonia Rubini.

– Professoressa Rubini, le confesso che a me, nativo degli anni ’90, nessuno ha mai insegnato a partecipare. È già un punto di partenza?

«In realtà non si insegna a partecipare come si può insegnare la matematica; è un habitus che deriva dall’esempio. Anche mentre si svolge un’attività didattica per affinare una tecnica si può favorire lo sviluppo di un atteggiamento partecipativo; penso, per esempio, alla stesura di una lettera che affronti problemi concreti della classe o della scuola, e indirizzata a destinatari come un assessore, o il preside… Ma non sempre la scuola si muove in questo senso, e nemmeno la famiglia. Mi vengono in mente alcune parole di uno spettacolo di Giorgio Gaber, divenute poi una canzone: “Libertà, non è uno spazio libero, libertà è partecipazione” e, ancora, che l’uomo “nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà”».

– Può essere, come dicono alcuni, “colpa” di uno stato di benessere diffuso che ci ha dirottati verso altri lidi? Altri bisogni? O sono gli interessi a essere cambiati?

«Temo che si sia smarrita la rotta; il benessere c’è, ma è così diffuso? Anche la povertà, la deprivazione sono diffuse. C’è una minoranza che vive in un mondo luccicante e non vede la povertà e il degrado che la circonda. Una minoranza che ha elevato a valore dominante l’avere e si pone come modello, cieca di fronte all’insostenibilità pratica di questo modello».

– Quale strumento educativo per ripristinare (scoprire?) i crismi dell’homo civicus?
«L’homo emptor, chiuso nel suo mondo privato, è l’esito di un percorso caratterizzato da errori educativi ai quali non è possibile pensare di rimediare in tempi brevi, tuttavia ritengo che gli strumenti per il ripristino dei crismi dell’homo civicus ci siano. Parlerei però di contesti o di luoghi, come la famiglia e la scuola. Una famiglia attenta a cogliere i bisogni, capace di dare indicazioni chiare, quindi anche di dire dei no, consapevole del dovere dell’adulto di essere guida, affinché la persona in crescita non si trovi persa in un mare di sollecitazioni senza autorevoli punti di riferimento su cui fare affidamento. Una scuola con adulti dialoganti, capaci di ascoltare, pronti a confrontarsi, consapevoli della delicata dimensione asimmetrica della relazione docente discente. Non una scuola del programma, ma una scuola capace di coinvolgere e di far crescere sia la consapevolezza che il confronto, l’attenzione per l’altro aiutano la crescita individuale e creano le condizioni per la formazione del cittadino responsabile».

– Dove si collocano movimenti come i Fridays for future?

«Sono un forte messaggio per la classe dirigente, un movimento responsabile di giovani che manifesta al mondo il proprio dissenso, la protesta e la legittima richiesta per un’inversione di tendenza. Si tratta di un segnale di collettività universale che si contrappone con forza ai limiti e alla miopia imposti dai regionalismi che condizionano la vita del pianeta. Una richiesta di cambio di rotta e anche un insegnamento che i giovani di tutto il mondo stanno dando ai potenti del mondo».

– Sembriamo aver smarrito le coordinate di un orizzonte comunitario e condiviso. È così?
«Parliamo di una meta ideale verso la quale ci stiamo muovendo a diverse velocità e sensibilità: gli ostacoli sono le disuguaglianze che caratterizzano il mondo, gli egoismi, la miopia di fondo che ancora impedisce di vedere con chiarezza la necessità di un’azione sinergica, di una logica della solidarietà che prevalga su chiusure e contrapposizioni, perché il bene individuale si realizza nel bene collettivo. Non direi però che abbiamo smarrito le coordinate: c’è chi non le vede, ma c’è anche chi continua ad averle ben presenti e si adopera perché questo orizzonte possa farsi via via più vicino».

– È in atto un processo sostitutivo rispetto ai soggetti protagonisti dell’educazione politica? Le associazioni sembrano aver in parte sostituito i partiti come collante sociale.

«Effettivamente pare sia così. Una possibile spiegazione può essere l’immediato riscontro dell’esito del proprio impegno: chi dedica del tempo ad attività rivolte ad altri ne coglie immediatamente l’utilità, vede i risultati, si sente gratificato ed è invogliato a continuare. Si tratta sicuramente di un fatto positivo, perché ci dice dell’attenzione verso l’altro, di un riconoscimento dei suoi bisogni e della volontà di contribuire alla realizzazione di un bene che non è solo il proprio; ciò è confortante, se si pensa a un futuro sereno dell’uomo; manca tuttavia un progetto di più ampio respiro di analisi sulle condizioni dell’uomo, delle collettività, dell’umanità con lo sguardo rivolto contemporaneamente al presente e al futuro, a cui si può pervenire con il confronto e il contributo di idee di ciascuno».

– Ci stiamo ribellando alla nostra natura di animali politici? O in fondo siamo fatti di altra pasta?

«Non penso che siamo fatti di altra pasta; ci stiamo allontanando dalla politica, sicuramente lo stanno facendo molti giovani (ma non solo) vuoi per ignoranza vuoi perché il mondo della politica viene percepito distante rispetto alle necessità concrete. Che ci sia un problema morale della politica non è un dato di oggi; ricordo che nel 1981 Enrico Berlinguer, riferendosi ai partiti, aveva parlato di un sistema clientelare e di potere, di scarsa attenzione per i problemi delle persone, di povertà di idee, di ideali e di programmi, di assenza di passione civile. Penso che ci troviamo di fronte a un problema culturale, di formazione, di educazione politica e alla politica per la cui soluzione è sicuramente importante il contributo di una scienza come la pedagogia attenta all’uomo e al suo benessere».

– Il digitale da una parte stimola la partecipazione garantendola a chiunque, dall’altra permette l’anonimato e la deresponsabilizzazione. Quale futuro ci attende?
«Avere la possibilità di far sentire la propria voce è un fatto positivo; diverso è insultare, denigrare o dire falsità nascondendosi dietro l’anonimato. Il diritto di dichiarare ciò che si pensa, di manifestare contrarietà, approvazione, di proporre soluzioni alternative è fondamentale in un contesto civile e democratico, che proprio di questo si nutre, ed è il percorso attraverso cui si persegue l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita delle persone, ma nulla si costruisce se viene meno il rispetto. È questo ciò che manca, il rispetto, oltre alla capacità di ascoltare, di argomentare».

– Come dice Antonio Bellingreri nell’introduzione del libro da lei curato Educare i giovani alla responsabilità. La politica come partecipazione (FrancoAngeli 2014), la comunità politica e la giovinezza dovrebbero essere categorie dello spirito, c’è ancora margine perché ciò accada?
«Sì. Tanti sono i giovani che, per mancanza di una formazione attenta ai valori, evitano qualsiasi impegno personale in attività rivolte all’altro, ma ci sono anche tanti giovani che, per quanto delusi dalla politica e dai politici, avvertono la necessità di un impegno verso l’altro. Ciò fa ben sperare in un futuro più partecipato, più animato dalla voglia di costruire contesti di vita meno conflittuali e orientati al bene di ciascuno».

Antonia Rubini
Docente all’Università degli Studi di Bari, si occupa di Dinamiche formative ed educazione alla politica. Fra i suoi testi,
Pedagogia e politica. Il contributo della comunicazione per un educare alla cittadinanza responsabile (Guerini Scientifica, 2010) e Educare i giovani alla responsabilità. La politica come partecipazione (Franco Angeli 2014).

[Foto di Nicola Cavallotti]

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