“Voi siete il Cristo degli altri. Essi non hanno altro Cristo che voi perché solo attraverso voi vedono il Cristo. Cercheranno Cristo attraverso voi, potranno amare il Cristo solo se e in quanto sarà amabile” (Maurice Zundel, teologo svizzero).
“Il capo scout è catechista”. Questa frasetta, pur magari avendola sentita spesso, un po’ di paura ce la fa. Alcuni di noi sono bravissimi con nodi e legature, ma provano enorme sollievo quando possono delegare all’AE (per i più fortunati) o al capo di buona volontà (per fortuna ce n’è sempre uno, ed è sempre lo stesso) la preparazione dei momenti di catechesi per l’unità.
Prima di tutto cosa significa essere catechisti? Secondo il pensiero comune, il catechista è “colui che espone oralmente una dottrina, nello specifico l’insegnamento religioso cristiano”(da Wikipedia), ma forse non tutti sanno che deriva dal verbo greco “katechein”, che significa letteralmente “far risuonare”. Un significato che ci ricorda quanto sia più prezioso “educare” (e-duco = tiro fuori) che “istruire”, e che si basa su un presupposto importante: che il desiderio di Dio è innato nei ragazzi, e aspetta solo di essere scoperto, capito, nutrito (educare la fede, meglio che educare alla fede).
Un compito bello, prezioso, certamente sfidante ma eccezionalmente arricchente. Allora perché vede molti capi tirarsene indietro? Quali sono le difficoltà che un capo incontra oggi nell’essere catechista? Proviamo ad analizzare le principali (e magari a ridimensionarle), una per una, come le piaghe d’Egitto.
La prima piaga: L’INADEGUATEZZA.
Molto spesso, diciamolo, il vero problema è che ci sentiamo inadeguati a essere catechisti e uno dei principali motivi è la preoccupazione di non riuscire ad essere buoni testimoni, consapevoli che – come diceva B.-P. – “agli occhi di un ragazzo conta ciò che un uomo fa, non quello che dice” (da Il libro dei Capi). La nostra vita parla di noi ai ragazzi più di quanto mettiamo in conto. Più che preoccuparci di non essere abbastanza bravi, San Paolo ci ricorda l’importanza di perseverare negli sforzi, perseguendo instancabilmente la meta, come “atleti allo stadio” (1 Cor 9, 24-27). È questo esempio, più che quello di un modello perfetto e irraggiungibile, quello di cui i ragazzi hanno bisogno: anche attraverso le nostre fragilità, infatti, possono scoprire l’amore di Cristo.
La seconda piaga: LA (presunta) MANCANZA DI MEZZI.
Pensiamo a volte di dover ricercare chissà quali attività fuori dal comune, quali testimonianze sconvolgenti per “fare una buona catechesi”. Avete mai pensato che l’esperienza scout può essere già, di per sé, esperienza di Vangelo? Le veglie, il deserto, le cacce di atmosfera, la strada, le route e i campi in luoghi significativi o suggestivi, gli incontri, l’esperienza di povertà e di accoglienza dell’hike, o anche semplicemente la vita di comunità: sono tutte occasioni di incontro con Cristo che gettano un seme, esperienze in cui il ruolo del Capo è piuttosto quello di aiutare il ragazzo a rileggere le esperienze vissute e a dare loro significato. E poi… Quanti di noi hanno nella propria biblioteca scout Il Progetto Unitario di Catechesi (1983) e Sentiero Fede (1997)? E quanti li hanno letti?
La terza piaga: LA NOSTRA DEBOLE SPERANZA
Ci preoccupiamo tanto di parlare di Dio ai ragazzi, quando poi magari ci dimentichiamo di parlare a Dio dei ragazzi. Eppure, questo Incontro che noi promuoviamo non può non essere una relazione a tre: “Te li raccomando perciò come quanto ho di più caro, perché sei Tu che me li hai dati e a Te devono ritornare” (Preghiera del Capo). Dovendo tratteggiare il profilo del capo scout in pochi linee essenziali, qualcuno ha dato questa definizione: “un saggio artigiano del metodo, innamorato di Cristo”. Se quest’amore è visibile, un ragazzo che vede nel proprio capo un modello, non può non incuriosirsi o non desiderare di farne parte!
Perciò, nonostante la fatica, nonostante le difficoltà, nonostante pensiamo di non essere all’altezza di un compito tanto prezioso, non rinunciamo a essere gioiosi annunciatori del Vangelo! Dopo tutto, avete mai considerato l’idea che nella società di oggi, dove molti ragazzi sono lontani dalla vita di parrocchia, e dove le famiglie spesso rinunciano ad essere modelli educativi nella fede, la nostra proposta, per quanto limitata, per quanto maldestra, potrebbe essere forse l’unica occasione di Annuncio che sarà loro offerta?
[foto di Ciro Schiavone]
—
Leggi per intero “Pontefici“, il numero di PE da cui è tratto questo articolo.
Nessun commento a "Rendete ragione della speranza che è in voi (Capo catechista: ma chi, io?)"
I commenti sono moderati.
La moderazione potrà avvenire in orario di ufficio dal lunedì al venerdì.
La moderazione non è immediata.
I tuoi dati personali, che hai fornito spontaneamente, verranno utilizzati solo ed esclusivamente per la pubblicazione del tuo commento.