Un ponte dal Libano a Trento – Una cosa ben fatta

di Mattia Civico - Trento 12

logo_UnacosabefattaQuesta è una storia da raccontare. Perché è una storia di piedi che hanno camminati accanto, di disponibilità a compromettersi con chi ha perso tutto. Perché se è vero che vogliamo “lasciare migliore il mondo” è evidente che non possiamo rimanere sordi al grido degli ultimi di oggi. Infine, è una storia da raccontare perché su queste strade hanno camminato anche molti scout, col fazzolettone al collo.

La scelta di servire comporta che ci si senta interpellati non solo una volta in settimana, ma tutti i giorni. E richiede di costruire Comunità di pace non solo nel nostro gruppo, ma anche fuori. Anche quando fuori è lontano.

Il campo profughi di Tel Abbas si trova a nord del Libano, a quattro chilometri dal confine con la Siria. Vi abitano da quattro anni un gruppo di famiglie, tutte con bambini molto piccoli, alcuni nati al campo. Cento persone in tutto. Vengono da Homs, fuggite dalla guerra e dalla distruzione. Si sono accampate poco distanti dal confine perché per quattro anni hanno sperato che qualcosa potesse cambiare, e che potessero un giorno tornare alla propria Patria. “Il vento mi urla che voglio tornare in Siria, gli alberi mi abbracciano e vogliono portarmi in Siria, l’acqua che cade dal cielo canta che tornerò in Siria”. A parlare con le lacrime agli occhi è Badheea, la nonna di questi 18 bambini, la maggior parte ha meno di quattro anni, che non hanno conosciuto altro che il campo.

La loro storia non è certamente diversa da quella di tanti altri profughi che la guerra ha espulso in Libano o in Turchia o sulle coste della Grecia o lungo le rotte interrotte di un’Europa sempre più chiusa. Ma è quella che ho conosciuto. “Fare ponti, fare ponti in questa società dove c’è l’abitudine di fare muri. Voi fate ponti, per favore!”. Così ci aveva detto Papa Francesco nell’udienza in San Pietro il 13 giugno dello scorso anno. E lo ha chiesto “per favore”.

Dal palco di piazza San Pietro avevamo cantato la necessità di mettere“coraggio nei piedi”e dunque di partire. Dieci giorni dopo prendevo il mio volo per Beirut e raggiungevo il campo profughi di Tel Abbas.

In Libano vivono quasi un milione e mezzo di profughi siriani. Su una popolazione complessiva di quattro milioni di abitanti. Attraverso un Paese messo a dura prova, in cui si respira ancora la tensione di un conflitto recente.

Arrivo al campo: mi accolgono Marta e Corrado. C’è anche Maria, che qualche mese prima aveva presa la partenza dal gruppo Vicenza 14. Sono tre volontari dell’Operazione Colomba, corpo civile di pace dell’Associazione Papa Giovanni XXIII. Hanno scelto di condividere con loro ogni giorno che passa. E lo fanno da due anni e mezzo. La loro presenza ha l’effetto di proteggerli dalla violenza e dai pericoli e di sostenerli nella vita di ogni giorno. Non portano aiuti, non rispondono a esigenze materiali. “La mia vita vale quanto la loro, e sono venuto a dirlo concretamente”.

La loro semplicità e la concretezza sono disarmanti. E sono in effetti disarmanti nel vero senso della parola. Mi fermo con loro una settimana. Conosco le famiglie, le loro storie. Alcune speranze. Dialoghiamo con gli occhi, con gli abbracci. I bambini cercano costantemente un contatto, saltano in spalla. La prima cosa che fanno è darmi un nome nuovo: AbuRic, che significa “il papà di Riccardo”. Si piange e si ride insieme.

La settimana dopo la mia prima permanenza con loro, mi fanno sapere tutta la loro disperazione: non ce la fanno più. In Siria non possono tornare, in Libano non possono restare. L’esercito libanese ha iniziato una operazione di sgombero forzato di tutti i campi abusivi. Se escono dal campo vengono arrestati. Vengono interrogati, intimiditi. Hanno paura e non hanno certezze. Stanno organizzando il viaggio per mare.

Io lo so che la loro storia è simile a quella di altri 60 milioni di profughi. Lo so. Ma loro li ho tenuti in braccio, mi hanno dato un nome, mi hanno accolto nelle loro tende. Hanno condiviso il nulla che avevano. Con i volontari dell’Operazione Colomba, con Alberto Capannini innanzitutto, iniziamo a pensare alle alternative. A parlarne con chiunque, a chiedere aiuto.

Incontriamo la Comunità di Sant’Egidio: Cesare, Daniela, Maria. Con le chiese Evangeliche e il Tavolo Valdese partecipiamo all’organizzazione di un corridoio umanitario, il primo in Europa totalmente dal basso. Un accordo con il Governo, siglato il 15 dicembre, apre la strada. Verranno rilasciati i visti per motivi umanitari.

Tornerò in Libano per altre tre volte. L’ultima il 27 di febbraio di quest’anno. Li accompagno insieme a tanti amici conosciuti in questa disperata e sconvolgente avventura, lungo il percorso che dal nord del Libano li porterà in Italia. Da Beirut a Roma in aereo. In sicurezza. Senza doversi mettere nelle mani dei trafficanti, senza rischiare la loro vita.

Arriviamo a Fiumicino il 29 febbraio: è il nostro “giorno in più”, e lo abbiamo usato così, per dire a chi vuole ascoltare che non è vero che siamo impotenti di fronte alle tragedie che vediamo in televisione. Che esistono strade alternative, ma che richiedono di essere percorse nella disponibilità a compromettersi, a mischiare i destini. Nell’anno della Misericordia – ci diciamo – il gate di Fiumicino è per noi una Porta Santa.

I “nostri” profughi sono ora qui con noi, a Reggo Emilia, a Torino e a Trento. A Trento la Diocesi ha messo a disposizione due case ristrutturate, un tempo adibite a residenza del vescovo emerito. La Provincia, dopo un ordine del giorno approvato all’unanimità dal Consiglio Provinciale di Trento, ne sostiene la permanenza per il primo anno. Sono iniziati i corsi di italiano, i bambini vanno a scuola, famiglie di Trento passano con loro il fine settimana, le comunità R/S a turno fanno servizio di animazione con i bambini. Gennaro, proveniente dal Taranto 15, dopo quattro mesi di Libano ha deciso di vivere a Trento insieme alle famiglie siriane.

Questo corridoio umanitario è una storia di amicizia finita bene che ci sollecita quotidianamente a fare la nostra parte fino in fondo. Rimane in me una forte convinzione: non abbiamo salvato nessuno se non la nostra stessa umanità. Un giorno qualcuno, magari proprio i nostri figli, ci chiederà che cosa abbiamo fatto di fronte alla disperazione di oggi. Racconteremo di dove abbiamo messo i nostri piedi e di un piccolo ponte che, “per favore”, abbiamo attraversato. Col fazzolettone al collo.


L’AGESCI, all’ultimo Consiglio generale, ha fatto proprio l’Appello per un’Europa solidale. Firmalo anche tu su http://www. europeofsolidarity.eu/

 

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Raccontaci la tua “Cosa ben fatta”, scrivi a pe [at] agesci.it

Leggi per intero “Pontefici“, il numero di PE da cui è tratto questo articolo.

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