Braccia aperte e piedi veloci

di Chiara Bonvicini, Alessandro Denicolai, don Carlo Villani

Incaricati nazionali e assistente ecclesiastico alla branca R/S

In pace con il nostro corpo imperfetto, capaci di bontà, bellezza e verità

Uomini e donne della Partenza…che forse è qualcosa di più di persone. Il cammino in branca R/S è un percorso in cui strutturarsi per la vita: una struttura è solida quando tutte le sue parti sono sane e in equilibrio. Non solo solida, ma anche bella. E in questa bellezza il corpo gioca la sua parte. L’età in cui si maturano le scelte e gli orientamenti della propria vita è anche l’età in cui padroneggiare il proprio corpo e riconoscerlo come un dono da custodire, curare, mettere a servizio.

«La testa è nel cielo è vero, ma il camminare ti entra da terra». L’esperienza del camminare aiuta a riprendere contatto con il proprio corpo, a non lasciare da parte questa parte di noi stessi. Tutti i significati che la metafora della strada porta con sé rimangono eterei se non sono portati dal significante del camminare: l’esperienza della strada è prima di tutto un’esperienza fisica. Il peso dello zaino, il cibo adeguato, gli indumenti giusti, gli scarponi a posto sono aspetti fondamentali che non possono essere trascurati, perché le nostre risorse fisiche non sono illimitate ma hanno bisogno di essere curate.

Costruire relazioni significative passa anche per la gestione della comunicazione non verbale e quindi per la corporeità. Ecco allora che i contatti con l’altro, con i compagni di strada non sono semplici “collisioni”, ma costruiscono un sistema di relazioni in cui riconoscere l’importanza dell’altro. Il linguaggio del corpo acquisisce significati nuovi che superano l’”io” e iniziano ad apprezzare la bellezza del “noi”. Colui e colei che condividono con me quel pezzetto di vita sono un bene prezioso che necessita di essere “maneggiato con cura”. Il gesto dell’abbracciarsi, ad esempio, diventa la narrazione sintetica del cammino fatto insieme, il riconoscimento che tu sei stato importante nella mia vita. È un linguaggio che ha le sue regole: scopro che non posso imporre il mio corpo, ma che le interazioni fra corpi sono generative per me e per l’altro quando sono attuate con lo stile del rispetto, della gentilezza, della tenerezza, non con l’obiettivo del possesso. Come gli spazi di gioco fisico: il bisogno di “vincere” per riconoscere il proprio valore viene meno. Diventa stare bene insieme, diventa strumento gioioso di accoglienza, naturale inclusione di chi è diverso da me: «Chi gioca?». La risposta è semplicissima in qualsiasi comunità di clan o noviziato: «Tutti».

Quella scelta di servizio che matura lungo tutto il percorso nasce dal cuore, ma poi sono le mani ad attuarla. Il servizio non è solo una dote morale, ma la scelta di donare il 100% di sé. Allora avere mani abili, braccia aperte, spalle larghe, piedi veloci, sguardo attento e parola gentile non serve a me per me, ma a me per chi affianco, per chi servo, per chi imparo ad amare.

Esserci, sussurrare parole di incoraggiamento, aiutare, sollevare, abbracciare, accarezzare, rincorrere, spingere (gentilmente), guardare, chiamare, sorridere, sospirare, sostenere, prendere per mano, soccorrere, cercare, piangere, stringere, accompagnare, ascoltare… Come sarebbe possibile senza il corpo? Così come siamo, in pace con il nostro corpo imperfetto, capaci di bontà, bellezza e verità.

La gioia di un capo sta nel vedere crescere i rover e le scolte in questo stretto nesso che c’è in ognuno tra cuore e corpo. Vederli in questo equilibrio meraviglioso, per cui dove è il corpo lì c’è anche il cuore. Mai separati, sempre insieme, per trovare nel cuore il senso di ogni azione, per trovare nel servire il senso dell’essere forti.

Chi è tornato dall’hike e ha vissuto l’imbarazzo, la gioia e l’intimità di questo gesto conosce la forza dell’amore dato e ricevuto. Il nostro maestro è Cristo che con il grembiule si piega a lavare i piedi agli apostoli.

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