A colpo d’occhio

di Anica Casetta

I ragazzi osservano come ci vestiamo, cosa mangiamo, come giochiamo e come abbracciamo: tutto racconta quanto CI stiamo a cuore e quanto li abbiamo a cuore

A ogni attività mi sentivo dire dal capo reparto in perfetta uniforme «metti quella camicia dentro ai pantaloni». Da scolta le cose non sono cambiate, forse solo una minor assiduità da parte dei capi clan nel rimarcare la cosa (un’iniziale perdita di speranza?). Poi ho iniziato a fare servizio in branco e la camicia è finita dentro ai pantaloncini e da lì non è più uscita.

Forse il senso di quello che per anni avevo visto con occhi apparentemente distratti aveva preso una forma estremamente concreta e vera, ma soprattutto mia. Ci è voluto un lungo assaporare per poterne percepire il gusto e per poi decidere se quanto assaggiato potesse fare per me. Sembra quasi un gioco di perseveranze: quella dei capi che con costanza e fermezza mi erano accanto, e la mia che a ogni attività mi portava a sbirciarli in tutta la loro concretezza.

Un ricordo mi torna in mente. Eccoli, come stambecchi, a salire il sentiero, scambiandosi chiacchiere e battute. L’unico pensiero che invece ho io è che un’illuminazione divina li colpisca al più presto e decidano così di fare una pausa. Credo che il mio pensiero unico sia condiviso da chi mi cammina pochi passi avanti. Ogni tanto si gira, siamo vicini, mi guarda, non mi dice niente, le nostre fatiche si assomigliano. Rispondo con un sorriso perché di fiato non ne ho. Il mio fiato corto non mente, sto facendo fatica, lo zaino mi incolla a terra e tutto ciò mi ricorda che io non sono solo parole, consigli e buone intenzioni, ma anche gambe, muscoli, fiato, sorrisi e fatiche. Devo capire fino a dove posso spingermi, accettando il mio limite dove necessario e cercando di lavorarci quando possibile. Non voglio imporre il mio passo, ma vorrei far sì che il mio passo sia espressione del mio meglio e che la mia fatica non offuschi il desiderio di arrivare con gli altri alla meta.

Voltiamo pagina. Grande gioco in vista e i ragazzi mi devono assegnare un nome indiano. Mi chiedo se rischio più un Capo seduto o un Capo in piedi? Non sono rinomati per essere politicamente corretti, quindi dai ragazzi mi aspetto qualsiasi cosa, senza filtri.
Quindi, oggi, come mi vedono? Dispensatrice di indicazioni, rimproveri e frasi di B.-P., incitamenti della serie “armiamoci e partite” come una capo che, se garbatamente invitata a giocare, si alza e corricchia per il campo? E ancora, compagna di squadra, “reggipalo” durante le costruzioni e piantatrice di tendine che all’occorrenza sa prendere fiato, sedersi a osservare e ascoltare?

Il mio corpo in azione è termometro dello scautismo che ho scelto di vivere e di proporre, di come l’avventura, il fare insieme, la strada, il gioco siano per me la via per accompagnare i ragazzi nel diventare grandi. Infinite sono le occasioni in cui il colpo d’occhio del ragazzo mi inquadra: quando osserva come mi sono vestito per l’uscita, quando scegliamo insieme il menù per la route, quando ogni sera mi vede lavarmi prima di andare in tenda, quando ci abbracciamo dopo un’accesa discussione, quando giochiamo insieme. Ogni azione è una scelta che dice quanto mi ho a cuore e lo ho a cuore.

Eccola lì la testimonianza, la dichiarazione dei fatti nuda e cruda che mostra come sono fatto, quello che rivelo con orgoglio e i limiti che riconosco, che forse non vorrei far apparire così evidenti, ma che sono parte di me e fanno il me che sono. E come prima di ogni testimonianza, è necessario prestare giuramento o, meglio, una dichiarazione di impegno. Abbiamo uno spazio dove custodire e coltivare queste nostre dichiarazioni, è il Progetto del capo. Possiamo rendere “attiva e qualificata” la nostra presenza e il nostro agire se ci pensiamo nella nostra globalità di uomini e donne. In nome di questa globalità, quanto investo in termini di impegno e attenzioni nello star bene con me stesso? E nel pensare al mio corpo come a uno strumento per entrare in relazione, per esplorare e prendersi cura di ciò che mi circonda? E nel far parlare il mio corpo delle scelte che vivo?
Credo sia un potente esercizio di scouting interiore dove l’oggetto della mia osservazione sono io, il mio corpo, i miei modi di pormi, le mie forze, i miei talenti, le mie fatiche e come questo mio corpo entra in relazione con l’altro e con l’ambiente. Ma non c’è scouting senza azione. È l’azione che permette di esserci concretamente, pretendendo tutta la nostra umana corporeità nel tempo – con perseveranza, nella verità – di sguardi, di gesti, di fatiche, nella condivisione – in cui coltivare la relazione.

[Foto di Margherita Ganzerli]

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