Le capo e i capi

di Laura Bellomi

Diarchia è ben più di “una donna e un uomo”. Ne parliamo con Marilina Laforgia e Matteo Spanò, già presidenti del Comitato nazionale AGESCI. E voi cosa ne pensate?

Le Capo e i Capi dell’AGESCI condividono la responsabilità educativa e testimoniano l’arricchimento che viene dalle reciproche diversità»: così nel Patto associativo. Attitudini diverse ma anche corpi diversi, cosa ha rappresentato la diarchia nel tuo vissuto scout?

MARILINA: «Come molti l’ho vissuta in diverse circostanze e con persone diverse: da capo reparto, capo gruppo, capo campo e via dicendo. Sempre, la diarchia mi ha impegnata profondamente e mi ha resa più consapevole. Ma ogni esperienza resta per me del tutto singolare. Con ognuna delle persone con cui ho condiviso il servizio si è generata una preziosissima unità e unicità. Se è vero che parte della nostra identità si definisce in relazione a un’altra, non ci sono esperienze di diarchia che possano essere davvero ripetibili».

MATTEO: «Delle varie esperienze di diarchia che ho vissuto, tutte significative, ognuna mi ha lasciato qualcosa di diverso. Più che come esperienza della diversità, posso dire che della diarchia ho vissuto il senso della complementarietà e anche della complicità, intesa come orizzonte e passione comune: in fondo corpi diversi ma una sola unità generativa. Credo, inoltre, che la diarchia mi abbia aiutato a scoprire i miei limiti ed anche ad accettarli un po’, insomma a volermi più bene».

In AGESCI viviamo la diarchia fin dal 1974. Dal tuo punto di vista la riflessione sull’identità di genere è attuale o ci sarebbero alcuni aspetti a cui l’associazione oggi potrebbe prestare maggiore attenzione?

MARILINA: «È stata dapprima la rappresentazione della virtuosa ed equa integrazione di due esperienze, che si è rivelata carica di valore e di forza simbolica. Ne abbiamo coltivato l’aspetto della complementarietà, che però oggi non rappresenta più tutta la carica inclusiva che questa scelta porta ancora in sé. Penso alla molteplicità di identità e alle infinite possibilità dello stare insieme (non necessariamente legate al genere) e penso al rischio di vedere intrappolati nella diarchia gli stereotipi di genere che lo scautismo di fatto non conosce. È giusto interrogarsi».

MATTEO: «È stata ed è una delle nostre frontiere. In esperienze diverse dallo scautismo, oggi vedo come ci sia bisogno di parlare della diarchia, per vivere esperienze di genere in parità. Per questo, penso che lo scautismo abbia bisogno di allargare gli orizzonti di questa esperienza che è un valore vissuto, ma che va ripensato, forse, oltre la diversità di genere, come esperienza di complementarietà e di generatività, come palestra di costruzione di un pensiero comunitario e di scelte condivise. L’associazione saprà cogliere le sfide del momento».

Diarchia non vuol dire solo “una donna e un uomo insieme”. Che consiglio daresti alle capo e ai capi per portare lo specifico di ciascuno nella relazione con il partner associativo e nelle dinamiche di staff?

MARILINA: «La diarchia è una micro democrazia: una continuità di pensiero che passa dall’uno all’altro, fino a comporsi come uno. Questa dinamica inevitabilmente si trasferisce al gruppo della cui animazione la diarchia è responsabile, nutre lo stile democratico dello stare insieme e sostiene la formazione di un pensiero collettivo. Proprio perché è prima di tutto una relazione democratica va costruita con impegno e con la consapevolezza che deve servire a generare valore al di fuori di sé».

MATTEO: «Un consiglio, che nasce dal mio vissuto: è utile creare momenti di “normalità” in cui non dedicarsi alla progettazione della vita di unità o a tematiche scout, ma confrontarsi, parlare delle proprie esperienze, “ruzzare”, cioè giocare insieme. Se non c’è continuo scambio che riguarda le persone nella loro globalità, la diarchia diventa sterile applicazione di un concetto e non esperienza dell’unicità di ciascuno di noi, quindi non genera e non contribuisce neanche alla pienezza della vita scout».

In quale tipo di attività hai vissuto in pienezza il valore della tua corporeità mettendolo a disposizione dei ragazzi?

MARILINA: «Lo scautismo esige in modo peculiare l’esposizione della corporeità. Per me, che non sono una persona di grande sicurezza e vigore fisico, questa dimensione è del tutto inscindibile dall’aspetto emotivo, intellettuale, morale che ho messo in gioco nel servizio, sia da capo educatore sia da quadro. Ma è la strada l’esperienza che mi ha sfidata più duramente, perché ha richiesto l’esposizione di una debolezza (io ho anche una piccola disabilità fisica), che nella relazione educativa ho dovuto, non senza difficoltà, tradurre in forza».

MATTEO: «Io vivo le relazioni e ogni esperienza con il pieno coinvolgimento della mia corporeità e naturalmente anche lo scautismo, per il quale la corporeità rappresenta la via per unire il cielo e la terra. Credo che in questi mesi di lockdown sia mancata molto, nella relazione con i nostri ragazzi, nel gioco. È nel gioco che io ho sempre vissuto con pienezza la mia corporeità. Giocare con i ragazzi, arruffarsi con loro, dimostrare l’affetto con un abbraccio quando segnavamo un punto, mi ha sempre reso felice».

Quella volta in cui per fortuna c’era Marilina/c’era Matteo altrimenti…

MARILINA: «Mancava una manciata di secondi alla partenza di un treno che non era quello che avrei dovuto prendere io, insieme ad altri. In uno slancio di prestanza fisica oltre la mia misura, ero corsa ad aiutare con gli zaini chi, invece, doveva necessariamente salirci. Le porte si chiusero prevedibilmente prima che io scendessi. Ad assistere alla scena, con gli altri, per fortuna c’era Matteo, così capace di dare leggerezza e persino valore ai limiti altrui, altrimenti io non sarei riuscita, come invece accadde, soltanto a riderne a lungo».

MATTEO: «Molto spesso, devo dire: per fortuna c’era Marilina! Ma se devo proprio scegliere, fra episodi e situazioni, degli eventi vissuti insieme, dei lunghi weekend di riunioni e di lavoro mi piace raccontare quando, con la sua delicatezza, mi ricordava i ritmi di vita corretti per il nostro corpo, che servono anche alla nostra mente e, quindi, alla qualità del nostro servizio… altrimenti sarebbe stato difficile arrivare in fondo!».

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