La situazione che viviamo oggi mi fa pensare a quando ci si perde in una boscaglia di sera durante una bufera, con la mappa di carta tutta bagnata dalla pioggia. La bussola coperta di terra, il prossimo punto acqua secco. Abbiamo passato la notte in tenda, piantata dove abbiamo potuto. Qualcuno si è bagnato, qualcuno è riuscito a piantare la tenda durante la bonaccia. Passa la pioggia, torna il giorno. Ora dove si va? Che strada prendiamo? È passata la bufera? C’è uno spiraglio nella boscaglia, si intravede il sole. Tanti dicono: ripartiamo! Alcuni dicono: ma è passata la bufera? E verso dove andiamo? Tutti scalpitano, sono stanchi, ma vogliono partire. Per dove? Bah, dai, intanto si cammina. La strada, se si fa strada non si sbaglia. E se dietro gli alberi ci fossero nubi ancora più nere? E se invece non ci fossero? Che si fa? Quando rivedrò i miei lupetti? Quando gli esploratori del mio reparto torneranno a fare scautismo? È tempo di ripartire? È veramente giunto il momento? Leggo tante idee, spesso contrastanti, in risposta a queste domande, ma sinceramente non riesco a comprendere quale sia il problema. Di cosa hanno bisogno i ragazzi, i bambini, che vivono con noi il bellissimo mondo dello scautismo? Me lo chiedo ancora più oggi, che in tanti reclamano un tempo di pace, di riapertura, di ripresa delle attività. C’è chi sta elaborando linee guida, chi sollecita a caute aperture. Sono un capo che ha vissuto probabilmente una dimensione della pandemia svantaggiata… o forse privilegiata. A casa mia ci siamo ammalati prima della chiusura del Paese, quando era ancora in corso la preparazione della prossima riunione di branco. C’è chi di noi è stato in ospedale con l’ossigeno, io ho impiegato molto tempo a riprendere la forma fisica e mentale per tornare operativo. I miei figli, per vicende che non approfondisco qui, si sono ammalati e sono “guariti”. Guariti, sì, ma solo agli occhi di noi genitori. Perché per puro scrupolo un medico ci ha fatto rifare i tamponi dopo due mesi e… il piccolo è ancora positivo. Dopo due mesi, ma sta benissimo. Vivo nuovamente la quarantena: faticosa, emotivamente devastante, con una preoccupazione grande per la salute di mio figlio unita all’ansia per i miei genitori che con noi hanno pranzato un paio di domeniche, “perché tanto stiamo tutti bene”. Una leggerezza, grande, che oggi sto rimpiangendo e piangendo, poiché ho messo in pericolo la vita di due persone anziane: per ignoranza, per voglia di tornare alla normalità. Tanto, cosa vuoi che succeda? Forse il mio punto di vista “svantaggiato” condiziona il mio modo di vedere la realtà che mi circonda, facendomi percepire con maggiore apprensione tutti i comportamenti dei giovani (ma non solo) che sono tornati a godere di una “normalità” riconquistata. C’è chi si vede, con la mascherina rigorosamente in mano, lasciandosi abbandonare a gesti di socialità riconquistata: tanto, cosa vuoi che succeda? Vedo molti ragazzi che scalpitano per uscire e rivedersi: mi fa molto piacere. Ma poi vedo gli stessi ragazzi camminare spalla a spalla, sedersi sui muretti a parlare senza pensare alle distanze. Pacche sulle spalle, viaggi in motorino insieme, condivisione del cibo, dei soldi, delle sigarette. I ragazzi che vedo sono anche i nostri ragazzi. Hanno vissuto una quarantena come gli altri, e come gli altri affrontano la vita con leggerezza, sicuramente con la consapevolezza di un problema che continua a esistere ma… poi cedono all’abitudine e… basta un attimo per dimenticare le buone prassi: per parlare mi abbasso la mascherina, tocco il mio amico e poi mi gratto il naso… Ma di cosa hanno bisogno di questi ragazzi? Sono un capo, e sicuramente ciò di cui hanno bisogno i miei ragazzi non è vederci di persona come prima. Almeno non subito. Sicuramente ciò di cui hanno bisogno non è fare quello che si faceva prima. Dopo tre mesi di chiusura, il mondo lì fuori è cambiato, ma ciò che è cambiato maggiormente è il mondo dentro: dentro di noi e dentro di loro. Oggi l’“attività” scout non può non ripartire dal mondo dentro i ragazzi, che è cambiato, stravolto da messaggi contraddittori e difficili da leggere che arrivano dall’esterno. Il nostro compito è lo stesso di prima: insegnare ad orientarci, ritrovare i punti di riferimento, localizzarci e poi guardarci intorno per raggiungere gli obiettivi. Gli obiettivi, oggi, non possono essere gli stessi di prima, ed anche gli strumenti non possono essere usati come prima. Essere scout ci ha insegnato che prima di scegliere il percorso su una mappa, occorre localizzarci, puntare l’obiettivo sul campo, trovarlo sulla mappa, ipotizzare un percorso, verificarlo, scegliere l’attrezzatura e poi partire. E torniamo alla domanda posta all’inizio. Che si fa? Si parte? Per dove? Sono un privilegiato, perché ho visto quanto è stata dura la bufera. Mi è già successo di partire pensando che tutto fosse passato, e proprio quando pensavo di poter camminare tranquillo, è arrivato un nuovo uragano. Un capo con la testa sulle spalle non parte. O almeno non lo fa subito. Si siede con i ragazzi, parla di quanto è accaduto e pensa con loro a cosa sia meglio fare. Si chiama un esperto della montagna, uno che conosce quei luoghi e si chiede consiglio. Poi si analizzano insieme i rischi, si impara dagli errori e poi si sceglie insieme il nuovo obiettivo. Insieme, ma non si parte finchè non si è sicuri che tutti possano affrontare il cammino, finchè tutti non abbiano capito come fare in caso torni la bufera. La cosa tragica di questo momento è che le persone che più hanno da temere dall’epidemia sono quelli che restano a casa. I deboli, gli anziani. Come mio figlio, ci sono tanti ragazzi senza sintomi ma con il virus imprigionato nella gola. Contagiosi, contagiati ma sani: apparentemente sani. Pericolosi, ma nessuno può saperlo. Uscire. Occorre organizzarsi per rivedersi? È urgente? È proprio necessario ora? Siamo capi scout. Educhiamo ragazzi e bambini per renderli capaci di fare la differenza nel mondo, di renderlo migliore. Vogliamo uomini e donne capaci di andare controcorrente: se tutti si muovono pensando che dietro gli alberi ci sia solo il sole, noi cresciamo persone che devono essere capaci di vedere oltre, sedersi e progettare, programmare, osservare, dedurre e poi agire. Fare servizio agli altri, oggi, ci richiede per prima cosa di fare servizio a chi ci è più prossimo. I nostri familiari, i familiari di coloro che rischieremmo di incontrare uscendo. Pochi di noi sono certi di essere sani. Nessuno è certo di non poter contagiare o essere contagiato; e questo rischio si riduce solo restando più tempo possibile a casa. Finché un esperto non mi dirà il contrario, l’oggi non ha nessun elemento di novità rispetto a un mese fa. Come capo mi sento responsabile di testimoniare questo: ripartire è l’esito di un processo che inizia sedendosi. Che facciamo, dunque? Partiamo subito o facciamo il punto sulla mappa? Non vedo fretta. Ogni gruppo legga la propria realtà ed agisca di conseguenza ma mettendo i ragazzi integralmente al centro, non assecondando ad ogni costo la loro presunta “fame di vivere”.
Un abbraccio.
Franco Pietrantonio, Capo Gruppo Pescara 3, Akela
Gli articoli della sezione “La parola ai Capi” sono opinioni personali dei singoli autori. Non rappresentano la voce di Pe né di AGESCI.
3 Commenti a "La strada, se si fa strada non si sbaglia"
Paolo Quarta 24 Giugno 2020 (7:56)
Mi trovo d’accordo su molto di quello che hai scritto.
Certo, oggi tante paure stanno scemando, ma restano tanti dubbi su cosa fare.
Lino Rosa 9 Luglio 2020 (15:04)
Ti capisco. La paura sarà comunque la peggiore conseguenza di questo tempo.
Monia Attore 19 Luglio 2020 (8:19)
Io penso che se ci fermiamo siamo perduti. Ma penso anche che se non testimoniamo la prudenza ed il rispetto delle regole diventiamo complici del virus.
Un altro scoutismo è possibile, sta a noi scovarlo.
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