Capitano nella vita dei momenti in cui una strana ansia, apparentemente senza motivo, si instaura all’improvviso e così tenacemente da vanificare ogni tentativo di allontanarla. Sembra illogico allora, cercare di scoprirne la causa, per poi, incredibilmente, imbattersi in situazioni tutt’altro che fantasiose. Ma in fondo, dell’essere umano abbiamo una conoscenza molto frammentaria.
Due anni fa, ero di ritorno da una assemblea di zona, quando prendeva forma dentro di me, una sensazione di timore, così sgradevole da indurmi, a fare mente locale per scovarne l’origine. Dopo un po’ si fionda nel cervello la Squadriglia Leoni in uscita. Alle 17 circa di quella domenica, i cellulari non raggiungibili del capo e del vice capo Sq., chiarirono l’enigma: paura che i ragazzi si fossero cacciati in qualche guaio.
Ci ritrovammo così, all’imbrunire e poi al buio, sui luoghi dell’escursione, quando uno dei ragazzi riuscì a contattarci al telefono e a fornire la sua posizione. Le voci dei ragazzi, che rivelavano lo stato di stress in cui si trovavano, guidarono i nostri passi e ci condussero sul greto di un rigagnolo che, dopo un breve tratto, continuava in una caduta di 20 metri. Nel mezzo della cascata, aggrappato a qualche appiglio e inzuppato, c’era Luca. Il recupero fu la cosa più semplice della vicenda.
I Leoni, in seguito a particolari rilevazioni, avevano stabilito, che superata la caduta, avrebbero trovato un facile sentiero per tornare a casa, salvo poi a constatare l’esatto contrario. Così, nel tentativo di risalire la cascata per ritornare sui loro passi, trovando la risalita più difficile del previsto, si affidarono all’uso di corde, costituite da lacci di scarpe legate tra loro, che evidentemente, non assolsero bene il compito che gli era stato assegnato perché, si sa, i materiali di oggi non sono più quelli di una volta.
Tutti i componenti della squadriglia, nei due giorni che seguirono, soffrirono di una insolita diarrea che non sembrava per niente dovuta a infezioni di sorta. Pare che perfino uno di noi capi, soffrì degli stessi sintomi.
La misura dell’accaduto ci venne offerta il giorno seguente. La sera prima dell’escursione, i Leoni, ospitati presso una casa canonica, per le minacce di un gruppo di ragazzini (max 9 anni) che promettevano di fare a ognuno di loro “un culo tanto” , si erano cautelati ricorrendo all’intervento dei carabinieri. Prudentemente mettevano al riparo i loro fondoschiena la sera prima e allegramente li esponevano a ben altri rischi il giorno dopo.
Come capi, avviammo una riflessione per interpretare l’accaduto, anche se, come è noto, da sempre i ragazzi ne combinano di tutti i colori. Sorprendentemente, però, la revisione delle attività di squadriglia degli ultimi anni indicava un dato comune: in tutte le attività, un qualche problema si era manifestato sempre, dal litigare e farsi riaccompagnare a casa dai genitori, al perdere la strada.
Definito il problema, evidentemente legato a una certa difficoltà dei ragazzi a vivere fluidamente la dimensione dell’autonomia, ci avventurammo alla ricerca delle ragioni di ciò.
Lo stare insieme dei ragazzi di generazioni precedenti, effettivamente, sembra più facile, più naturale, perché probabilmente era per loro più abituale. Sono innumerevoli le testimonianze di capi che in passato riuscivano a tener su un campo estivo con uno o due capi al massimo ma con il contributo centrale dei capi sq. Di certo i ragazzi di oggi non sono ne migliori ne peggiori di quelli di prima ma hanno qualità, gusti e soprattutto tempi diversi che sta a noi scoprire.
La risposta alla domanda “perché oggi è diverso” è fin troppo facile. Chiunque può agevolmente constatare che la giornata tipo della stragrande maggioranza dei bambini – ragazzi oggi, è presidiata dall’adulto, dalla scuola al gioco. Lo spazio che rimane all’autonomia nel gestire il gioco tra pari e da soli è minimo, ne consegue una certa fatica a cavarsela da se o a inventarsi, creativamente, un gioco.
Non è difficile stimare la ricaduta positiva che un buon livello di autonomia può avere, a livello valoriale: chi è autonomo avrà più possibilità di costruirsi una personalità libera e nella verità, rispetto alla fede, all’essere cittadino e nei rapporti affettivo-relazionali.
In questa prospettiva, i ragazzi di generazioni precedenti hanno potuto esercitare i loro sacrosanti diritti: poter disporre di tempo libero non gestito dagli adulti, poter giocare fra loro all’aria aperta, avere a disposizione materiali e strumenti di lavoro con cui cimentarsi.
Lo scautismo, attraverso tutti gli elementi del metodo, offre ma al tempo stesso, richiede autonomia. Proprio per questo la disabitudine ad esercitarla può impattare con le attività che vengono proposte che addirittura ne possono accentuare i segni esteriori, rendendola più evidente.
La questione è resa ancora più articolata dal fatto che, pur conoscendo le cause che portano a ciò, inconsapevolmente, il capo rischia di colpevolizzare il ragazzo e di non anteporre a sufficienza la fiducia nel rapporto educativo, rendendo vano ogni buon proposito di costruire una relazione educativa fertile.
Sul piano della risposta educativa le piste praticabili per restituire autonomia sono almeno due due. La prima riguarda i tempi, nel senso che, se il momento di inizio e le tappe del cammino scout non vengono sempre proporzionati rispetto al livello di autonomia dei bambini- ragazzi- giovani oggi, è necessaria una più attenta programmazione della verticalità e della gradualità che eviti, tanto per fare un esempio, salite al reparto o al noviziato o esperienze di capo sq. relativamente precoci. La seconda riguarda invece l’importanza da dare alla dimensione dell’autonomia a partire dai primi passi del cammino scout, attraverso tutti gli elementi del metodo ma direi in particolare attraverso il tempo che necessariamente bisogna rendere fruibile, rifuggendo dalla tentazione di pensare che sia meglio la qualità della quantità. Gli spazi di autonomia devono essere ampi, anche se vanno costruiti con gradualità e, la quantità, checché se ne dica, serve!
Una sola riunione di un’ora di branco/cerchio a settimana o una di reparto ogni 15 giorni sono molto poche, rispetto al tempo da recuperare. Forse sono poche anche 3 o 4 uscite all’ anno o campi estivi di soli 8 giorni. Una esperienza scout quantitativamente più corposa è ostacolata, come tutti possiamo sperimentare, da non pochi fattori: i troppi impegni dei ragazzi, le esigenze delle famiglie e il tempo dei capi, che richiedono una mediazione paziente con i soggetti coinvolti. Ma la sfida più impegnativa, oltre che affascinante, mi sembra quella di far innamorare i ragazzi dell’esperienza scout perché chi è innamorato il tempo lo trova sempre. Ma per fare questo ci vuole il tempo.
I ragazzi della Sq. Leoni sono sempre nel mio cuore, per Luca, il protagonista della storia, continuo ad essere il suo medico di fiducia e mentre la diarrea è un lontano ricordo, i Leoni sanno ormai come fare per evitarla.
Alfredo Vallone
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