Per testimoniare ai ragazzi l’amore di Dio occorre stare tra loro. Perché la fede è relazione, non verità da insegnare.
Ne parliamo con la teologa Giuseppina De Simone
Fra capi scout ci diciamo che per trasmettere la fede bisogna innanzitutto viverla. Oggi i ragazzi riescono a vedere in noi adulti la sostanza del credere?
«I giovani hanno bisogno di vedere in noi una testimonianza viva e vissuta, ma spesso trasmettiamo un’idea di fede stanca e sfiduciata. Inoltre, corriamo il rischio di guardare a loro come se fossero un mondo “altro” rispetto a noi, mentre l’intreccio tra le generazioni si dà inevitabilmente. Quando sento dire “i giovani sono la nostra speranza, costruiranno un mondo migliore”, avverto che stiamo scaricando su di loro responsabilità di cui non sappiamo farci carico. Così anche nella trasmissione della fede: ricordiamoci che siamo tutti strettamente legati».
– Il Papa chiede ai sacerdoti di avere l’odore delle pecore, quale odore devono avere gli educatori?
«Gli educatori sono chiamati a stare tra i ragazzi: per questo, come i pastori, devono avere l’odore dei ragazzi, il profumo delle loro giovani vite».
– A proposito di fede, come si fa a “stare tra” i ragazzi?
«La parola chiave è accompagnare, che significa avere cura, stare accanto senza sostituirsi. Non occorre dirigere la loro vita quanto aiutarli a scoprire la presenza del Signore nella loro esistenza. E farlo con passione, attenzione sollecita, mettendosi in ascolto. Ecco, l’educatore deve saper ascoltare. Ascoltare Dio per rispondergli e insegnare ai ragazzi stessi ad ascoltare».
– Può spiegare meglio cosa significa ascoltare?
«Significa avvertire nella propria esistenza una trama più ampia, una storia di cui siamo parte assieme agli altri, che viene da lontano e dentro cui possiamo scorgere la presenza del Signore. Una storia, insomma, da guardare con gli occhi di Dio: la fede ci dà uno sguardo diverso sulla storia, ce la fa guardare in profondità, oltre la superficie del quotidiano. E proprio nella quotidianità ci sono germi di Vangelo, possibilità di bene che crescono silenziosamente, da imparare a scorgere, e che sono come lievito affidato alle nostre mani».
– Quali sono gli ambiti della fede a cui i giovani sono più sensibili?
«I giovani chiedono di andare al cuore delle questioni. Li allontana il trovarsi davanti a principi e a una morale presentata in maniera astratta e formale, come una gabbia dentro cui costringere gli slanci dell’esistenza, in una logica di controllo».
– Qual è, invece, il cuore della fede?
«La relazione, da scoprire e imparare ad avvertire. La fede non è un insieme di verità su cui ragionare. Anche se ha bisogno di essere una fede pensante. Occorre quindi educare e custodire i cuori, recuperando appieno il valore dell’affettività, nella vita come nella relazione con Dio.
I giovani tra l’altro sono sensibili alla dimensione della cura: sanno che nella qualità e nella profondità delle relazioni c’è il senso dell’esistenza. Per questo una fede generatrice di relazioni buone, a partire dalla relazione con Dio, trova i giovani disponibili all’ascolto».
– Questo tempo di pandemia, che si accoda a decenni di secolarizzazione, è un tempo buono per la trasmissione della fede o altri sono stati più propizi?
«Non esiste un tempo ideale, questo è il tempo favorevole perché è quello in cui il Signore ci ha posto. Dio ci chiama sempre, sta a noi ascoltare e rispondere. Il filosofo Romano Guardini diceva che “noi stessi siamo il nostro tempo” e che dobbiamo imparare ad amarlo. Su questo tempo di pandemia abbiamo bisogno ancora di riflettere per capire che cosa ha da dirci. Sicuramente ci ha fatto avvertire fragilità e impotenza. La fragilità ci aiuta a capire che senza le relazioni non siamo nulla. E la fragilità ha a che fare con Dio. Non un “Dio tappabuchi” a cui ci si aggrappa nelle difficoltà. Ma un Dio che non ci lascia mai soli. La cura di Dio nei nostri confronti ci genera continuamente. Sappiamo bene, però, che la sua cura non sempre corrisponde a ciò che vorremmo o avevamo immaginato, ma è la tenerezza che ci consegna alla relazione con l’altro, con il mondo e quindi alla capacità di assunzione di responsabilità reciproca. L’unica via attraverso la quale possiamo edificare un mondo più giusto e una umanità più fraterna».
– Cosa pensa dei tentativi di accompagnamento spirituale on line, moltiplicatisi in tempo Covid?
«Prima della pandemia capitava di sentire “dobbiamo saper usare internet per la pastorale, adattare i linguaggi e così via”. Non si tratta però di rincorrere i cambiamenti tecnologici quanto di abitare la rete con creatività. La pandemia ha spalancato le porte delle chiese, che andranno tenute aperte per ascoltare le persone e incontrarle, anche con modalità nuove».
Giuseppina DE SIMONE
Docente di Filosofia della religione presso la Facoltà Teologica di Napoli-sezione San Luigi. I suoi studi riguardano temi di confine tra filosofia e teologia e in particolare l’esperienza religiosa. Da sempre impegnata in Azione cattolica, è direttrice della rivista Dialoghi.
[Foto di Laura Bellomi]
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