Tutto intorno a te

Il motivo per il quale siamo infelici? Forse perché cerchiamo la felicità nel posto sbagliato.

Innanzitutto confondiamo l’essere felici con un generico stare bene. Stare bene (espressione ambigua e fuorviante) vuol dire che nessuno mi rompe le scatole, che ho il mio momento di pace (mio sacrosanto diritto!), che fra un po’ cominciano le ferie, che i bambini finalmente dormono. Tranquillità, quiete. Posso fare quello che voglio. Mi siedo, mi accendo una sigaretta, mi verso una birra: sto bene. Mi godo il panorama, fantastico tramonto, il vento mi accarezza i capelli… mi guardo un bel film, ascolto musica: oh, come sto bene. L’altro giorno una persona alla quale voglio bene mi dice che ogni tanto, per “stare bene”, si fuma uno spinello. Un’altra, che studia duramente tutta la settimana, il sabato sera deve eccedere con l’alcol. Così sta bene. I suoi occhi hanno un riflesso che esprime del vuoto. Facciamo tante cose, per stare bene. In fin dei conti però tutte queste cose ci danno solo un’emozione che dura poco, pochissimo. Oppure addirittura, ecco il paradosso, per stare bene facciamo cose che ci fanno stare male. C’è qualcosa in noi che ci allontana dalla vita.

Dove sta dunque l’errore? In una errata percezione della realtà? Questo modo di cercare la felicità (nel senso dello stare bene) ha due premesse fasulle. La prima è che l’individuo esista a prescindere dagli altri. La seconda è che ciò che conta è solo il presente (meglio: l’attimo presente).

La prima premessa è falsa. Tutti noi esistiamo solamente in relazione agli altri. Sono altri che ci hanno messo al mondo, altri che ci hanno fatto e ci fanno crescere, altri che ci permettono di vivere, altri per i quali viviamo. Fisicamente né spiritualmente esiste un “io” indipendente da un “tu” e da un “noi”. Se qualcuno possiede la prova contraria, me la presenti.

Aggiungo che la concezione cristiana di Dio esclude persino che Dio stesso possa esistere “da solo”. Tanto è vero che lo si descrive come una comunità (la Trinità) nella quale l’unità è data dalla relazione di tre persone che ci sono l’una per l’altra. Il Dio-solo non esiste. Se c’è, è un Dio-comunità-di-amore e (di conseguenza) un Dio-con-noi.

La seconda premessa è altrettanto irreale. L’attimo presente è del tutto inafferrabile. È un punto. Nel momento in cui lo penso, è già passato. Ancorare la propria vita (anche affettiva) all’attimo presente significa costruirla sul nulla. Se il presente ha le dimensioni di un punto, è inconsistente. Esistono molto di più il passato e il futuro. Diciamo pure che la dimensione dell’essere, alla quale siamo chiamati, si articola in un continuum di passato, presente e futuro. La felicità ha a che vedere con questo continuum, con l’eternità (che racchiude ciò che c’è di buono nel nostro passato-presente-futuro), piuttosto che con un attimo presente che, a pensarci bene, è tutto tranne che presente.

Sbagliamo quando abbiamo lo sguardo perennemente rivolto al passato, sbagliamo quando viviamo proiettati solo in un domani che ancora non c’è (e che sarà sempre domani), sbagliamo a cercare di nutrirci di un attimo inafferrabile perché inconsistente. L’oggi, invece, è una cosa diversa. È il luogo della vita e dell’impegno ed è la sintesi di ciò che è stato e ciò che sarà (le due  cose ci danno ciò che è). L’oggi, non l’attimo. L’oggi può essere vissuto pienamente solo nell’ottica dell’eternità. Del per sempre.

Carpe diem: credo ci sia una radicale differenza tra “vivere il proprio giorno” e “cogliere l’attimo”.

Ecco dunque la felicità: non la troveremo in un attimo fuggente e nemmeno in un io ripiegato su se stesso. Entrambe le cose non c’entrano con la vita. La contraddicono. Poter vivere l’attimo e doversi occupare in primo luogo di se stessi sono l’inganno della società dei consumi e dei suoi astuti ideologi. Servono a deresponsabilizzare. A convincerci che nessuno ci chiederà conto e, soprattutto, a non chiedere conto a nessuno. I paraocchi che ci vogliono concentrare lo sguardo sull’attimo presente servono a farci perdere la memoria (la nostra storia che contiene tutto ciò di cui siamo espressione) e ad impedirci di vedere come nel futuro ci siano tutte le conseguenze delle nostre azioni e delle nostre scelte (e non scelte) di oggi.

La felicità nell’attimo fuori dal tempo e nell’io autocentrato non c’è affatto. In questi non-luoghi ci sono solo ingannevoli ed effimere emozioni. La felicità non può essere nella (non)dimensione dell’istante, ma è in quella dell’eternità, del per sempre. Così anche: la felicità “solo mia” non esiste. Esiste invece la felicità condivisa. In fin dei conti: la felicità di tutti e di ciascuno.

Ecco perché lo scautismo (e l’educazione in genere) va controcorrente. Per usare un linguaggio R/S: prevede un cammino che, come ogni cammino è fatto di un “da dove” e di un “verso dove” (la strada). Prevede che questo cammino venga percorso “insieme” o comunque in relazione ad altri (la comunità). Prevede che su questo cammino io scopra e cominci a vivere il mio “esserci per gli altri” (la comunità e il servizio), che prenda la mia vita e la “spezzi” in memoria di chi l’ha spezzata per tutti (il servizio che crea comunità/comunione).

Amicizie vere, rapporti di coppia, matrimonio, famiglia, rapporti genitori-figli, scelte di vita comunitaria e di servizio… tutto ciò ha senso se è vissuto nella dimensione della continuità di ciò che è buono (l’eternità) e se mette al centro il tu, anziché l’io. Non c’è vero amore senza libertà. Non c’è vera libertà senza responsabilità. Siamo responsabili della felicità delle persone che la vita ci affida. Nel vivere per alimentare la loro felicità troveremo la nostra. Faremo del bene, saremo nel Bene. E magari staremo bene davvero.

Bill

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