Una vita piena davvero

È perfettamente inutile girarci attorno: lo stile di vita proposto dallo scautismo è tutto tranne che di tendenza, in questo periodo. Perché semplicemente non è pronto all’uso, ha un atteggiamento tendenzialmente critico, non punta alla performance e tantomeno al sempre di più, ma al sempre meglio.

Al contrario ci devi lavorare come un matto per padroneggiarlo e sentirtelo tagliato addosso e spesso nemmeno basta, perché il lavorio su te stesso è continuo e intenso, persino quando avresti l’età per insegnarlo agli altri, quel po’ di stile che hai conquistato. Prevede, necessariamente, il continuo confronto con gli altri, in un’epoca che fa dell’egoismo una regola guida.

 

Un po’ come quando, recitando la mia parte nel rito del matrimonio, ho concluso – come tutti – promettendo di amarla (Paola) e rispettarla (sempre lei) nella buona e nella cattiva sorte “finché morte non ci avrebbe separato”, e mi è subito venuto da pensare: e perché dopo no? Visto che credo e promuovo una scelta di fede che presuppone una vita slegata dai limiti del tempo terreno.

 

E quindi? In un numero che parla di affettività verrebbe da pensare che questo c’entri anche poco, ma se si fa il piccolo passo di chiedersi come possa lo scautismo contribuire alla dimensione affettiva di quelli che educa e di quelli a cui fa formazione permanente, allora il nesso appare più logico. Sta tutto nel “per sempre” che avrei voluto pronunciare quel giorno.

 

Se c’è un’epoca che ha sistematicamente rinnegato e spessissimo combattuto la dimensione della pienezza (anche) affettiva, il per sempre che prometti nel matrimonio, è quella in cui viviamo. Lo si vede pure nelle vocazioni alla vita religiosa: tutti a dire che se i nostri preti potessero sposarsi avremmo un fiorire di adesioni alla vita di parrocchia e nessuno che si chieda perché le chiese che accettano il legame del matrimonio per i sacerdoti sono in crisi come la nostra.

 

E se c’è un epoca che da questo senso di costante e precaria immediatezza ha lavorato contro il senso di comunità (grande o piccola, non importa) che invece genera la solidarietà, è sempre questa. Lo si vede dalla vittoria delle opinioni sui fatti, dal pregiudizio sul giudizio (citando Kant) per cui si può dire tutto e il contrario di tutto perché le ricerche per capire se sia vero tutto quello che è stato detto, in un attimo saranno fuori dal flusso dell’immediato. Appunto.

 

Ma la coppia è una comunità che ha un senso solo nel per sempre. La coppia non è il risultato dell’operazione “uno più uno”, ma dell’“uno per uno”. Che fa “uno”, perché io e lei siamo uno, insieme.

 

Ancora: lo scautismo quindi cosa c’entra? C’entra perché lo scautismo ha nel suo principale obiettivo quello di contribuire alla crescita di uomini felici che facciano la felicità degli altri. No, lo scautismo non è nato per costruire capi, è nato invece per gli uomini e le donne, perché sapessero apprezzare nella vita con gli altri e grazie all’aria aperta la pienezza della dimensione umana. E fossero tanto felici da sentire istintivo il richiamo alla felicità di tutti. Nella convinzione che non ci fosse gusto ad essere felici da soli.

 

Lo stesso vale per la coppia. Non è sommando due felicità che ne faccio una migliore, ma integrandole, continuando a lavorarci vicino, ascoltando il contributo degli amici, mettendoci passione e seguendone l’evoluzione persino quando si diventa genitori. E tutto torna, visto?

 

Per questo non c’è scemenza peggiore che sostenere che nella coppia l’amore diventa routine. L’amore è routine nel cervello di chi lo crede ripetitivo, solo lì. La coerenza cui ti chiama l’amore di coppia non è una missione a cui si può essere più o meno devoti, ma solo la naturale evoluzione del completo dispiegamento della felicità. Voglio dire, a spiegarla semplice, che non esiste una felicità che un po’ c’è e un po’ no. Non perché non ne abbia viste, ma perché non sono felicità. Semplicemente sbagliamo nome. L’unica felicità è per sempre, è totale, è gigantesca, è assoluta. Le piccole felicità che riempiono i libri degli autogrill sono emozioni, se non sensazioni, che si limitano ad imitarla.

 

C’è una pagina sorprendente di vangelo, nota come il racconto del giovane ricco, che lo spiega ancora meglio. È vero, c’entrano gioventù e ricchezza, ma il discorso va ben oltre questi aspetti. Riguarda la vita (di cui la gioventù è l’icona) e la libertà (o il suo opposto, la schiavitù, di cui la ricchezza è l’emblema). Riguarda in definitiva la possibilità di essere felici (il vangelo direbbe “beati”). La felicità, come si è detto sopra, obiettivo di ogni uomo, di ogni donna, di ogni coppia e della nostra azione educativa.

 

Racconta Matteo (19,16-22):

“Un tale si avvicinò (a Gesù) e gli disse: «Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?».

Gli rispose: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Buono è uno solo. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti».

Gli chiese: «Quali?». Gesù rispose: «Non ucciderai, non commetterai adulterio, non ruberai, non testimonierai il falso, onora il padre e la madre e amerai il prossimo tuo come te stesso».

Il giovane gli disse: «Tutte queste cose le ho osservate; che altro mi manca?».

Gli disse Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!».

Udita questa parola, il giovane se ne andò, triste; possedeva infatti molte ricchezze”.

 

Se ne andò triste, dice l’evangelista. Quel “triste” a me personalmente fa male. Vedo uno che si perde. Ma mi dà anche la misura della libertà e del fatto che siamo noi stessi gli artefici della nostra felicità (benché, si dirà più avanti, Dio sa rendere possibile anche l’impossibile).

 

La domanda è: cosa intende quell’uomo (e cosa intende Gesù) con l’espressione “vita eterna”? Sta parlando dell’aldilà? Certamente no. Sta parlando della vita piena, della vita sensata. In altri termini della felicità. La felicità che è il “successo” di cui parla BP, che “non viene stando seduti ad aspettarla”, che sboccia “nel procurare la felicità degli altri”.

 

Proviamo a tradurre l’episodio del “giovane ricco” in un linguaggio più vicino al nostro modo di esprimerci.

“Ecco, un tale si avvicinò e gli disse: «Maestro, che cosa devo fare di buono perché la mia vita abbia davvero senso (per essere felice)?».

Gli rispose: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Per fare ciò che è bene bisogna essere nel Bene. Se vuoi entrare nella vita, osserva ciò che la coscienza suggerisce ad ogni persona».

Gli chiese: «Che cosa?».

Gesù rispose: «Non togliere né minacciare la vita, sii fedele a chi ami e a chi ti ama, non pensare che cose, idee e atteggiamenti possano renderti più ricco, sii sincero e trasparente, abbi rispetto di ciò che hai ricevuto, ama gli altri come vorresti essere amato».

Il giovane gli disse: «Tutte queste cose le ho osservate; che altro mi manca?».

Gli disse Gesù: «Se vuoi che la tua vita sia davvero degna di essere vissuta, esci dal guscio che ti imprigiona, prendi ciò che ti è stato donato e dallo a chi ne può avere bisogno. Così sarai felice. Poi vieni con me e le cose in cui dici di credere, vivile davvero!».

Udita questa parola, il giovane se ne andò, triste; era infatti prigioniero delle sue molte ricchezze; delle sue cose, delle sue idee, delle sue emozioni, che gli impedivano di gettare lo sguardo al di fuori di se stesso».

L’uomo ricco intuisce che per essere felice, perché la sua vita abbia senso (per avere la “vita eterna”) si tratta di “fare qualcosa di buono”. Intuisce che ciò che ne scaturisce non ha le caratteristiche dell’effimero. Le cose buone durano “per sempre”. Una vita buona dura “per sempre” (eccola la “vita eterna”).

 

Il fatto è che per fare qualcosa di buono e per vivere nella pienezza bisogna essere liberi. Liberi in primo luogo da se stessi. “Uscire da se stessi” ripete spesso papa Francesco. Liberarsi da se stessi e dalle cose che ci trattengono (le ricchezze) per incontrare gli altri e per avere quella felicità che è tale solo se è vissuta e raggiunta insieme.

 

La felicità racchiude il “per sempre” e implica “l’esserci per gli altri” (che è ciò che dà senso ad una comunità). Per questo “camminare verso la felicità” è la sintesi della proposta scout. È la mission dello scautismo: “Io credo che il buon Dio ci abbia messo su questo pianeta per essere felici”.

La chiave della felicità – lo ripetiamo? – è fare la felicità degli altri. Un concetto che oggi va controcorrente. Fa ridere i benpensanti. Appare quasi trasgressivo. Scardina a priori ogni egoismo e ogni successivo egocentrismo.

Marco Gallicani e Paolo Bill Valente

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