Territorio e sviluppo

Ci sono almeno tre buoni motivi per parlare di territorio e sviluppo. Facciamo un piccolo gioco, quasi un esercizio mentale. Cosa vi viene in mente alla parola territorio? Piazze, scuole, chiesa, associazioni … poi, probabilmente, anche periferie, aree degradate, abbandono. Un bel mix, insomma. Il fatto è che in pochi ormai alla parola territorio possono associare il tanto “rassicurante” ma davvero “poco avvincente” terzetto casa, sede scout, parrocchia: il tessuto sociale del nostro Paese è da tempo fatto di nuove urbanizzazioni. Ecco il paesaggio in cui siamo chiamati a giocare: città diffuse, quasi sfilacciate, dove ai luoghi storici di incontro come il mercato, la piazza, le sedi di partito e i circoli, si sono via via sostituite le catene commerciali e i multi cinema. A rendere poi le città sfuggenti  – e alle volte difficili da abitare – è una diffusa indifferenza per le questioni sociali e politiche, la riduzione dei servizi di accompagnamento dei cittadini e lo svilupparsi in modo repentino di nuovi comportamenti, nuove tendenze e nuove vie di fuga. Niente di scioccante, ma per capire in quali acque navighiamo dobbiamo esserci immergersi almeno un po’ nella realtà, limpida o maleodorante che sia.

Conosciamo il posto in cui operiamo, sappiamo cogliere cambiamenti e orientarci nei nuovi territori? In un periodo storico frammentato come quello che stiamo vivendo, la nostra associazione ci invita ad essere sentinelle di positività e ad affrontare in modo nuovo e profetico le difficoltà. Come? Avendo  coraggio (una parola che, guarda caso, nei prossimi mesi ci accompagnerà fino alla Route Nazionale R/S 2014): noi capi in prima persona, e educando di conseguenza al coraggio. Il coraggio di acquisire e sperimentare nuove competenze, il coraggio di non stare fermi, il coraggio di svilupparsi. Prendiamo il lavoro, la cui assenza oggi è la problematica numero uno in Italia. Educhiamo noi stessi e i nostri ragazzi all’intraprendenza, sosteniamo il cambiamento come occasione per fare esperienza e differenziare il “bagaglio”. Ancora, un altro esempio potrebbe riguardare le discriminazioni che tengono separati abitanti di uno stesso quartiere: puntiamo ad essere promotori di soluzioni alternative, magari assieme ad altre associazioni e alla chiesa locale.

Coraggio, un passo dopo l’altro, teniamo presente la saggezza popolare “chi si ferma è perduto”. La sociologia dice che le associazioni che si fermano, ovvero che non si sviluppano, si esauriscono, muoiono. L’Agesci cresce e di questo dobbiamo essere contenti e orgogliosi. L’Europa è il continente in cui lo scautismo è nato, ma è anche il paese in cui negli ultimi quindici anni ha perso il maggior numero di associati. Noi invece, cresciamo. In controcorrente rispetto alla tendenza europea, ogni anno registriamo un aumento, piccolo ma significativo. Forse le comunità capi fanno più fatica di una volta a fare progetti più a lungo periodo (e non si parla di prendere in gestione un terreno per i prossimi dieci anni, ma di affidare l’Unità a un capo che garantisce tre anni di presenza continuativa), ma allo stesso tempo abbiamo acquisito un’elasticità maggiore, che consente di ideare e progettare “dando un calcio all’impossibile”: precarietà e incertezza innanzitutto. E il grande impegno delle nostre comunità capi si può vedere nelle realtà in cui i gruppi sono un riferimento alternativo alla dispersione, alla discriminazione, all’illegalità, all’omofobia, alla mafia.

Concretamente, per dare aria ai polmoni dell’Associazione le parole maestre sono mantenimento e sviluppo. Come è possibile? Per essere in grado di “mantenere” occorre continuare a coinvolgere i fratelli minori in un’avventura appassionante, guidata da capi credibili, capaci di rendere i più giovani protagonisti  e felici perché consapevoli che il loro impegno offre possibilità di crescita dal valore inestimabile. Mantenere è importante, ma possiamo fare ancora di più. Appena possibile, dobbiamo rilanciare. Cerchiamo di intercettare i bisogni e le potenzialità del luogo in cui operiamo, le esigenze delle famiglie e le speranze dei più giovani. Chiediamo in parrocchia quale è l’immagine che la gente ha di noi e ragioniamo: siamo percepiti come un’opportunità? Apriamo nuove unità.

C’è poi un dato che potrebbe essere utile per una riflessione, ed è l’età media dei Quadro, XX anni. I dati dei censimenti dicono che è più difficile per un capo “giovane” (fino ai 30 anni) rispetto a uno più maturo, rimanere in Comunità capi. In molti casi è la maggior facilità a dare la propria disponibilità al servizio, avendo una vita professionale, familiare e sociale già avviata se non definitivamente stabilizzata, che porta a rimanere in associazione più a lungo. Ma se l’esperienza, la competenza e la disponibilità dei più “anziani” da un lato significano garanzia, stabilità, capacità di analizzare le situazioni nel loro complesso, forse se l’associazione avesse quadri più giovani ne guadagnerebbe sotto altri punti di vista, freschezza e vicinanza alle realtà delle branche innanzitutto.

Infine, l’ultimo buon motivo per parlare di “Sviluppo e territorio” è anche il più semplice e chiaro. Prendete in mano il progetto nazionale Agesci 2012, “Sentinelle di positività”. Il secondo ambito in cui si articola il progetto si chiama “Territorio, ambiente educativo, sviluppo”, e non è certo un caso: l’Associazione ne ha fatto uno dei temi portanti del lavoro di questi anni, e così la redazione di Proposta educativa ha deciso di dedicare al tema un numero intero. Buona lettura e … avanti a chi tocca!

Laura Bellomi

 

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