Seminare, irrigare, lasciare crescere: quale servizio per i capi “a disposizione”?

di Paola Stroppiana e Christian Caleari

Il servizio si impara, poco a poco. Seguendo le tracce di chi ci precede, di chi ha il coraggio di percorre le strade che noi intravediamo vagamente. Un piccolo esempio di questo “mettersi in scia” di chi è più grande di noi ci arriva da un’esperienza vissuta in una comunità parrocchiale come tante.

Il parroco, assistente del gruppo, è arrivato da tre anni e ha già conquistato la fiducia e l’affetto di tutti. Sembra l’inizio di una bella e lunga storia, ma tutto si interrompe bruscamente: un’emergenza in un’altra parrocchia impone un trasferimento immediato del nuovo parroco, che di fronte ad un consiglio pastorale attonito, nello stupore e nell’amarezza generale, saluta tutti lasciando un grande insegnamento: “Siamo qui per seminare, cambio parrocchia ma il campo è lo stesso: a far crescere è Dio”.

Una storia come tante, forse. Una storia che ci invita a guardare con nuovi occhi anche le nostre comunità capi, “pezzi” di questa nostra chiesa dove la logica è la stessa. Siamo tutti seminatori, tutti chiamati a irrigare. C’è chi è più grande, chi cammina da più tempo e ha fatto più strada, che convive e condivide il presente con capi che sono ai primi passi. Siamo tutti lavoratori della vigna, che non è nostra. Sappiamo bene che nella vita delle nostre comunità capi, la coesistenza di persone di età diversa, che attraversano momenti diversi della propria vita, può creare difficoltà e attriti. L’incontro e lo scontro intergenerazionale non sono un’eventualità: sono inevitabili e possono essere, a seconda dei casi, uno scoglio insormontabile o un fertile terreno di crescita di tutti.

A questo si aggiunge il fatto che nella nostra Associazione sono numerosi i capi e le capo che, avendo speso energie e passione nel servizio per molto tempo, restano in comunità capi nella convinzione di essere “ancora utili”, per qualche periodo, anche senza svolgere un servizio educativo diretto con i ragazzi. Il regolamento parla chiaro sul tema ed è recente un approfondito dibattito sulla qualificazione dei diversi servizi del “capo” in Associazione. Ci sembra tuttavia importante, su queste pagine, provare a stimolare una riflessione all’interno delle comunità capi. Ma di quale Co.Ca. stiamo parlando? Spesso il gioco del “non è” ci aiuta a definire le cose. Aggiungiamo noi, un po’ provocatoriamente, il gioco del “non è solo”.

La Co.Ca. non è solo un luogo in cui realizzo me stesso, dimostro il mio valore, faccio valere la mia idea. È anche questo, indubbiamente, ma non basta. La Co.Ca. non è solo il luogo in cui ritrovo il calore degli amici, il conforto nelle difficoltà, la conferma alle mie insicurezze. Può essere anche questo, ma non basta. Per certi versi, la Co.Ca. non è neppure solo il gruppo di persone con cui cresco come adulto, cittadino, cristiano. È bello che possa essere anche questo, ma ancora non basta. La Co.Ca. è il luogo in cui degli adulti, che si riconoscono nei valori espressi nel Patto Associativo, si incontrano per progettarsi e progettare l’impegno educativo con il metodo scout in una comunità ecclesiale e in un territorio. La comunità capi può dunque essere luogo di relazioni autentiche, spazio di ascolto e di solidarietà, spazio di libera espressione e di affermazione delle nostre ricchezze personali solo se, in origine, si riconosce in un progetto. Si ri-conosce, continuamente.

Per questo motivo, tutti coloro che non partecipano attivamente al progetto, che per molto tempo non si misurano con il servizio attivo, che non sono interessati a riconoscersi nei valori del Patto Associativo, non sono disponibili a riprogettare se stessi e la propria vita secondo queste direzioni, ha poco senso che stiano in comunità capi. Se la nostra Co.Ca. “scivola” da essere comunità di servizio (in cui persone anche di età diverse, con interessi differenti ed esigenze differenti, possono utilmente stare insieme per realizzare un progetto comune) a comunità di vita o a gruppo di amici o – peggio – a corte alle dipendenze di un “imperatore”, la Co.Ca. avrà vita breve e il gruppo con essa.

Per i capi più esperti, per quelli che “hanno tirato la carretta”, per i preti carismatici e per i capi fondatori spesso il problema è entrare nell’ottica del seminatore, di chi porta l’acqua, del servo inutile. Il punto è che il capo veramente in gamba è quello che sa farsi da parte, che sa far crescere le persone che possono sostituirlo, che non ritiene che la propria idea valga di più di quella di chiunque altro in comunità capi, anche entrato la settimana scorsa. Sono utili e significativi il capo e la capo che dopo anni di servizio nella formazione o in regione sanno rimboccarsi le maniche e dare disponibilità in una branca dove non sono mai stati, con umiltà e voglia di imparare ancora. D’altra parte, è difficile per una comunità che nasce attorno ad una figura carismatica o seduttiva affrancarsi da essa per costruire una dinamica fra adulti alla pari, centrata sul compito: certamente è più facile affidarsi ad altri, lasciare a loro il compito di decidere e il rischio di sbagliare, farsi portare. È semplice perché è anche deresponsabilizzante, meno coinvolgente e permette di lasciare il servizio con qualsiasi buona motivazione, non appena lo si desideri. Quindi le comunità capi “vittime” di una figura autoritaria ed ingombrante sono più probabilmente vittime di una dinamica che fa comodo a tutti, a chi agisce il potere e a chi lo subisce.

La questione di fondo non è distinguere formalmente fra le tipologie di servizio “attivo”, come capo, quadro, formatore, o in altri incarichi in Associazione o a supporto del progetto educativo. La questione è che cosa faccio nella mia comunità capi, a quale chiamata stiamo rispondendo, che cosa cerco, cosa sono disposto ad offrire di me. Fintanto che il centro, il cuore della motivazione sono gli altri e il progetto che ci aiuta tutti ad essere “servitori” degli altri, va tutto bene; quando il centro divento io, è meglio che faccia lo zaino e saluti tutti. Perché quello, semplicemente, non è più servizio. La comunità capi è fatta anche per chiederci di guardare e di dire questa cosa nella Verità. La Verità è nelle parole di Paolo, che quel parroco usa nel suo saluto alla comunità, prima di andarsene a continuare a seminare altrove. Consapevole che, per chi si sente collaboratore di Dio, dopo la semina arriva un’altra semina, in attesa di una ricompensa più grande per tutti. Il campo non ci appartiene, ciò che ci rende fratelli è il sogno in comune. Ad ognuno il compito di trovare il proprio utile “posto di azione”.

“Ma che cosa è mai Apollo? Che cosa è Paolo? Servitori, attraverso i quali siete venuti alla fede, e ciascuno come il Signore gli ha concesso. Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere. Sicché, né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere. Chi pianta e chi irriga sono una medesima cosa: ciascuno riceverà la propria ricompensa secondo il proprio lavoro. Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio, edificio di Dio”. (1COR 3,5-9)

 

[foto di Rachele Fede]
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