SE IL SIMBOLO NON PARLA, NON FUNGE!

di Antonella Cilenti

Giocarsi bene la ricchezza di linguaggi

La nostra religione, l’appartenenza politica così come il metodo scout sono da sempre intrisi di simboli e cerimonie; ci abituiamo fin da piccoli ad associare, seppur in un’accettazione irrazionale, il fuoco allo Spirito Santo, una capanna alla venuta ogni anno di Cristo nella nostra vita, la croce al più rivoluzionario segno di salvezza. Allo stesso modo, scegliamo di scandire i nostri giorni tra: uniforme, lanterna, totem, animali di squadriglia, fiamma, guidoni, distintivi, zucchetto o cappellone, bottoni sulla cinta, bussola, forcola, fischietto da nostromo. Ancora salutiamo con rispetto e commozione una bandiera. Viviamo poi di riti, da quelli sacramentali nella fede a quelli sacramentali nell’AGESCI: battesimo, cresima, adorazione, tutte le liturgie, promessa, consiglio della legge, della rupe, issa e ammaina bandiera, nomine capi e vice, silenzio, chiamata, issa-oh, grande urlo, firma dell’impegno, partenza, carta di clan.

Ma tutte queste cose sono tanto naturali quanto scontate? Hanno davvero ancora un significato? Nelle nostre coscienze c’è un peso specifico diverso tra la sostanza di ciò che vogliamo comunicare e la forma? Il rischio che alcune cose si facciano senza attribuirne il vero significato, che significa poi dopo il segno, impegno e azione, appare in questi ultimi periodi sotto gli occhi di tutti. Siamo divenuti la società delle targhe che si sostituiscono al ricordo vero di ciò che è accaduto, siamo l’umanità che si prostra in una palazzetto di Crotone (ricordate, dopo il naufragio di Cutro?) o si indigna per chi non lo fa, ma poi tira avanti nella sua vita.

Noi capi ci intendiamo ancora quando scegliamo: riti, simboli, narrazione fantastica, catechesi esperienziale? O facciamo fatica perché manca la formazione e preferiamo stare seduti a parlare? Per esempio, parliamo con i ragazzi di progressione personale (dire a un ragazzo: «Oggi vieni che facciamo la progressione personale» è peccato da confessare!) o ce la giochiamo mentre li sfidiamo allo scalpo in un prato?

L’esperienza dello scautismo ci restituisce uno zaino di emozioni e a ciascuna di esse deve essere associato un passo avanti nella costruzione della nostra identità. Come un capo scout crea un contesto per un’emozione? Come un ragazzo comunica un’emozione? Da sempre questo avviene non verbalmente: i capi propongono un’esperienza che solo dopo si connoterà di significato…forse; i ragazzi spesso non rispondono con le parole! Invece moltissime cose si comprendono solo osservando, restando apparentemente lontani da ciò che sta avvenendo, coinvolti solo nello sguardo e nel ricambiare un cenno, un sorriso o una smorfia se l’altra parte di questo dialogo speciale ci interpella. Perché ciò avvenga però, il distintivo concesso o meno, il totem assegnato o la cerimonia di partenza devono essere tanto importanti per noi capi, da urlare essi stessi il loro significato in quel momento.

Se frugo nel mio zaino, scorgo tanti momenti parlanti ma senza parole. Stefania capo squadriglia, appesantita da questa nomina, spesso usava il guidone come bastone di sostegno per i suoi pensieri, guardava costantemente a me capo reparto in cerca di approvazione: se a ogni parola da lei detta o azione fatta guadagnava un sorriso, accresceva in sicurezza e dinamismo e stringeva con orgoglio quel guidone; se invece questo sorriso non arrivava o per caso arrivava un cenno di rimprovero, Stefania si perdeva e la stessa sorte toccava al suo guidone dimenticato chissà dove nel campo. Marco, piede tenero, dopo mesi intenti a stanarlo nella sua timidezza lavorando sulla rotta, lo abbiamo visto fare un mimo di 25 minuti davanti a un reparto attonito ed appassionato spettatore. E come se la rideva dopo la sua performance quando tutte le guide e le scolte lo hanno riempito di abbracci e pizzicotti chiedendogli da quale paese fosse atterrato; come complici erano bastati solo un barattolo di cerone da usare in completa libertà e il buio. Ma nello zaino ritrovo anche staff che non danno un senso a quella barretta gialla data a un capo unità che per la Co.ca. significava investire su quel giovane capo, significava dare fiducia. Se da capo gruppo vai a trovare il branco in caccia ti basta poco per capire quanti capi di quello staff hanno già chiuso la porta a un nuovo progetto del capo, non c’è neanche bisogno che te lo dicano che non ne vogliono sapere più di quell’Akela ingombrante e non vedono l’ora solo di tornare a casa.

Giochiamoci dunque bene questa ricchezza di linguaggi perché hanno grandi poteri sia nella vita di un ragazzo che in quella di un capo: un potere evocativo che ci consente un passo oltre il capire, il conoscere le cose arrivando al sentire le cose, al farle proprie che è un imparare con il cuore; un potere politico che ci proietta nel futuro perché è una dichiarazione al mondo di ciò che siamo e che vogliamo essere.

Don Tonino Bello dice: «Le prediche espresse con i simboli, parlano un linguaggio a lunga conservazione» (in Dalla testa ai piedi).

Comunicare la liturgia: work in progress del Sinodo

Senza ascolto non c’è comunicazione. Lo sa bene Papa Francesco che ha suggerito che il Sinodo sulla Sinodalità partisse con 2 anni di ascolto: la fase narrativa. Nell’ambito di questa fase, dalla prima sintesi delle diocesi, guardando ai giovani ascoltati e alle categorie di persone fragili, è emerso come bisogno quello di modificare i linguaggi della liturgia. Rileggendo la sintesi della mia diocesi mi sono imbattuta in:

Vorrei una Chiesa più profumata”, “come l’odore della casa dei nonni” [Federica, Francesco, due bambini] “…che utilizzi mezzi multimediali ed un linguaggio più avvincente per la liturgia” [un ragazzo di scuola secondaria] “In Chiesa voglio la primavera” [Luca, giovane diversamente abile]
Quante Messe o nostre attività sono davvero in grado di comunicarci sempre verso tutti? In quante parrocchie per prassi la domenica la liturgia viene tradotta in LIS? La comunità è accogliente, sorridente?, La casa-Chiesa è bella, profumata? Che ricchezza questo ascolto, da sole tre sollecitazioni vengono fuori tante suggestioni e campi di impegno come cristiani.

[Foto di Camilla Lupatelli]

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