Precari non si nasce

Nelle generazioni del 20° secolo, i ragazzi che vengono subito dopo di me, sono definiti “sazi” (gli sdraiati verranno poi), “apatici” o con qualche altra sigla creata ingoiando un po’ di inglese a caso. Sono quelli nati a cavallo del cambio di secolo, quando ormai la globalizzazione si stava stendendo sul pianeta come fosse un tappeto.

Non hanno partecipato (se non nelle carrozzine guidate da genitori) alle prime contestazioni del ’98 o del 2001, né tantomeno alle manifestazioni di dissenso costruttivo come i social forum, le fiere dell’economia solidale e i raduni oceanici contro le guerre e per la pace. Le statistiche vanno ghiotte dei loro profili e normalmente parlano del loro futuro in termini impietosi: avranno lavori sempre meno garantiti, saranno costretti a spostarsi – anche più volte – per inseguire la carriera, quando anche la trovassero, perché già oggi sono quasi 950mila i disoccupati tra le loro fila, nonostante la quasi totale digitalizzazione e l’altissima istruzione media.

Time li ha definiti “sovraistruiti, sottoimpiegati e selvaggiamente ottimisti”.
Ecco, io vengo appena prima. E quindi a ragionarci dovrei sentirmi un privilegiato, uno di quelli che ha la casa appena prima della linea della frana. La maggior parte dei miei amici ha un contratto a tempo indeterminato (io no, ma faccio un lavoro parecchio strano), una posizione di carriera di medio livello e quindi un reddito di quelli che ti permette di firmare un mutuo senza prima passare a prendere la mamma. Eppure un po’ del loro malessere lo abbiamo sperimentato anche noi, che ora abbiamo quasi 40 anni. Lo abbiamo provato nelle sue frustate iniziali. E quelle frustate hanno forse ferito più noi che i naturalmente disillusi, se mai avesse un senso fare una classifica della precarietà.

Perché su di noi la precarietà ha avuto gli effetti di chi crede che faccia bello, la domenica, e invece poi si alza con il cielo nuvoloso. Ha modificato le nostre abitudini e persino i nostri progetti. Ricordo una ricerca dell’Istituto Toniolo di Milano di fine decennio scorso che analizzava il rapporto dei giovani con la famiglia e la genitorialità, i loro sentimenti verso il futuro, nei confronti del lavoro e della religione. Una ricerca che – ovviamente – a rileggerla oggi evidenzia come le generazioni non abbiano confini netti.

Ricordo che alla domanda «Vorresti un figlio nei prossimi tre anni?», la maggior parte di loro (il 64%) rispose “No”. Immagino che i cosiddetti “neeet” di oggi (Not Engaged in Education, Employment or Training) potrebbero rispondere lo stesso. E sapevano certo, i miei coetanei di allora, che alla loro età le loro madri e i loro padri avevano già uno, se non due, figli. Ma se chi aveva trent’anni nel ‘77 aveva un reddito superiore del 3 per cento rispetto a quello medio nazionale, loro ora sono 12 punti percentuali sotto. Lo stesso dicevano sul matrimonio, e sulle scelte che preparano il futuro che vorremmo. Persino quelle dell’impegno politico. “Ti candideresti alla carica di Sindaco?” gli chiedevano. E loro rispondevano “Se il mio lavoro me lo permettesse”.

E qui potrei attaccarmi con tutto un ragionamento sulle scelte che fecero i padri costituenti di dare una retribuzione al ruolo politico perché lo potessero affrontare tutti quanti in libertà. Ma servirebbe a poco perché i nostri padri costituenti non s’immaginavano che ben più dei tagli voluti dall’opinione pubblica (sull’onda degli sprechi della classe politica, della casta) poteva il timore che al termine dell’impegno si sarebbe dovuto ricominciare tutto daccapo. Con quel che ne consegue per le vite di chi la fa la scelta, e di chi la subisce, come le famiglie.Persino in Agesci abbiamo digerito un pezzo di quella precarietà. Pensate a quante volte un giovane capo preso dalla riunione sull’assetto della comunità capi del prossimo anno vi ha ripetuto che «il futuro è pieno di incognite e non esistono scelte che valgano per sempre».

Quanti si prendono ancora l’impegno triennale che sarebbe quello minimo per garantire ai ragazzi una continuità di relazione con i propri capi? Il rapporto la chiamava “generazione della rinuncia”, perché di fronte alle sfide, che ancora c’erano – non siamo nati nella mancanza di opportunità, noi – preferiva di gran lunga rimanere dalla parte delle garanzie, dalla parte di quelli che agli altri ci penseranno dopo. Come al dopo posticipavano le loro ambizioni intime, che pure c’erano, evidentemente. A furia di posticipare però spesso è andato a finire che il progetto si sia arenato, perso.A loro (anche a loro) andrebbe dedicata qualche riflessione.

Di natura “politica” soprattutto, perché se è vero che la globalizzazione non è certo un processo che qualche ministro può mettere in discussione, persino un sindaco può però lavorare su aiuti e sostegni alla genitorialità, sulle buone pratiche che la rendono sostenibile, per se e per gli altri. E se son vere le statistiche che dicono che la “mia” è la generazione che dalla politica sta più lontano di tutte (il 91% non se ne occupa, secondo l’ultima indagine Istat), ecco allora abbiamo un problema al nostro “core business” come direbbero quelli che l’inglese l’hanno imparato. Perché siam poi qui per educare buoni cittadini, o sbaglio?Ma la questione non è tutta qui. Bisogna capire quanto di questa precarietà ci è entrata in testa, prima ancora che nel portafoglio o nell’agenda.

Perché se la vita si fa frenetica e alla rincorsa, se il lavoro è pagato peggio di prima ed è pure molto meno, se in pensione ci si andrà molto dopo (se ci si andrà) allora che fa un’associazione che educa i ragazzi (che siam ragazzi fino a 35 anni, oggi) del 2014? Predica l’arrendevolezza? O non avrà invece – ancora una volta – più senso ricordare di quella rana di cui parla B.-P.?
Cioè: se la vita intorno a noi cambia bisogna attrezzarsi per cambiare anche noi, non per accettare tutti i cambiamenti che ci peggiorano l’esistenza, ma al contrario per conoscere quegli elementi che ci portano indietro di anni nelle conquiste collettive, per maneggiarli e cambiarli. Non si cambia ciò che non si conosce. Quindi attrezzarsi, prepararsi, formarsi ad una vita che sarà anzitutto molto più lunga di quella dei nostri nonni, più salutare per la maggior parte di noi, più ricca di esperienze rispetto anche solo a quelle dei nostri genitori (che non gli veniva nemmeno in testa di prendere un low cost per Dublino per il ponte dei Santi) e poi certo anche molto meno comoda rispetto alle tutele e molto meno placida.

Fino a che punto tollerare e quando ribellarsi? Ad ognuno la risposta. Noi qui suggeriamo di tenere sempre come punto di vista di partenza quello degli ultimi, sempre e ovunque si trovino e di capire quante esperienze possiamo fare ora, anche integrandole con il lavoro (che se ci pensate i nostri genitori tenevano invece in scompartimenti belli divisi) e quanto invece dobbiamo rallentare, anche fermandoci di lato se serve per dedicarci alle cose più importanti. Che quelle invece non cambiano mai. ][Marco Gallicani]

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