Pensieri sparsi sulla comunità Capi

[di Chiara Romei, Mario Padrin e padre Davide Brasca – Incaricati e assistente nazionali di Formazione capi]

Lucinda Matlock, pronuncia queste parole dalla sua sepoltura, osservando i figli e le figlie di Spoon River, le cui lamentazioni e debolezze non riesce a comprendere, né ad approvare.

Verrebbe la stessa reazione, dopo avere letto e analizzato i resoconti dell’indagine effettuata su mandato della Mozione 41, perché le lamentazioni sono molte e molte le grida di aiuto. E verrebbe anche voglia di dire che, in fondo, non va poi così male, che i capi si sono sempre lamentati, ecc. Verrebbe voglia, ma non lo facciamo.

Vogliamo invece comprendere fino in fondo la questione, certi che sia complessa e che richiami, a sua volta, altre questioni, e che la “cura” (intesa come farsi carico), richieda tempi non brevi e necessiti di forme e risorse risolutive più simili ad una coperta patchwork, fatta di stoffe e fili di trame diverse, la cui cucitura richiede il tempo che richiede, piuttosto che uno o due eventi, documenti, articoli di regolamento, ecc.

Il primo passo sarà riflettere sulle nostre comunità capi al Consiglio generale. Sarà un momento importante per la nostra Associazione, soprattutto in questo momento storico e alla luce degli ultimi eventi vissuti (convegno fede, route nazionale) che hanno visto ampia partecipazione da parte dei capi, sintomo di un bisogno di vivere l’aspetto comunitario e valoriale.

Vogliamo qui esporre alcuni punti che possono aiutare a collocare la questione:

  • La comunità capi è l’unico (proprio nel senso di “solo”) strumento che ha l’Agesci per costruire e fare scautismo (proprio nel senso di “fare attività scout”). E questa potrebbe sembrare una banalità, visto che il concetto è espresso in tutti i documenti associativi, a cominciare dallo Statuto; acquista, però, un significato interessante se si pensa che non pochi percorsi pensati e avviati negli ultimi anni per supportare i capi, hanno avuto, come effetto collaterale, un processo di deresponsabilizzazione della comunità capi. Un esempio per tutti è il CFT che, nella sua attuazione pratica, ha assorbito in un evento unico quello che era il ben più articolato percorso di Tirocinio; percorso di competenza (e di responsabilità e di onore) delle comunità capi. Potremmo proseguire con il sistema delle autorizzazioni…
  • A scarse e burocratiche funzioni della comunità capi, sta corrispondendo una richiesta di competenza scarsa e con caratteristiche burocratiche del Capogruppo. È inevitabile: l’uso abilita la funzione.
  • Posto che la comunità capi e il suo progetto educativo sono luogo di elaborazione e attuazione dello stile comune di QUEL gruppo di capi, in QUEL luogo, in QUEL momento, con QUEI ragazzi, è chiaro che la comunità capi deve essere in grado di discernere quali sono le priorità, a cosa dare prevalenza, a quale idea di persona educare. Quindi anche di scegliere, e di assumersi la responsabilità, della gestione del suo tempo e dei suoi tempi, di poter avere almeno un po’ di voce in capitolo sull’affidare, o meno, l’unità ad un capo che sta effettuando il suo iter formativo. E di quest’ultimo poterne definire, insieme a quel capo, i tempi più adeguati per un percorso di crescita che possa definirsi tale.
  • Le relazioni tra adulti sono difficili e noi non siamo “metodologicamente” attrezzati. Il nostro mestiere è fare i capi scout di ragazzi scout e per il resto andiamo per tentativi utilizzando strumenti che vanno dall’area comunicativo-aziendale-ludica e quella psicoanalitica. Un paio di idee. Cominciare a pensare che la “condivisione” deve diventare confronto, perché è dal confronto che emergono le diversità e, se il confronto avviene su temi di senso, i conflitti che si generano, se gestiti, possono diventare occasioni per la crescita di una comunità educante. Uscire di sede, fare strada, fare uscite, fare la cucina trappeur, insomma riconoscere, dare rilevanza e vivere tra adulti ciò per cui stiamo insieme: il nostro essere scout. Pregare insieme, riconoscersi come povera gente, che fa fatica, che lavora per portare i ragazzi a Gesù, con le parole che ci vengono, con ciò che siamo. Pregare insieme, ancora prima  di poter essere competenti nella catechesi.
  • Conferire nuovo senso a ciò che facciamo e riqualificare i luoghi in cui viviamo sono i temi di riflessione che non possiamo più posticipare. A fronte delle ricchezze, ma anche delle fragilità che riscontriamo nelle nostre comunità, è chiaro che impegnarsi nell’ambito educativo, in un mondo in continua evoluzione e frammentazione, diventa sempre più difficile. I nostri capi vivono in contesti sociali nuovi, che richiedono disponibilità e attenzioni diverse rispetto al passato; dobbiamo pertanto aiutarli nel loro percorso di educatori delle giovani generazioni.
  • Ridare la collocazione che merita a ciò che facciamo, significa rimettere al centro dell’Agesci le comunità capi. Non che oggi non lo siano: tuttavia si avverte, diffuso, un bisogno di idee e pensieri che aiutino a vivere il presente in maniera più serena e concreta. Abbiamo bisogno di riprendere il confronto sui contenuti, poiché nel corso degli anni, forse, la voglia di decodificare tutti gli aspetti associativi ha comportato un impoverimento della discussione nelle nostre comunità. A volte la riflessione in comunità capi si riduce a una serie di argomenti più tecnico-logistici che di riflessione pedagogica, venendo così meno all’intuizione della comunità che si confronta e cresce. La sensazione è che la nostra frenesia nel voler trovare risposte, perché sollecitati continuamente, ci porti a soluzioni affrettate; le domande, le istanze, pur vivendo in una società veloce, hanno bisogno di ricerca e approfondimento, anche in tempi lunghi, ove necessario. Forse per spirito di autocritica, tendiamo a porre l’accento soltanto sugli aspetti negativi, non riuscendo a valorizzare quanto di buono produciamo nell’associazione e nella società; dovremmo ricordarci sempre che, pur con tutti i nostri limiti, molte sono le comunità capi che stanno riflettendo sul loro modo di essere, e il lavoro sulla mozione 41 ha rappresentato, in questo senso, l’ennesima occasione per avere uno spaccato delle nostre realtà . Si tratta di realtà sicuramente vive, che hanno però bisogno di sentire vicine le strutture associative. Queste ultime dovrebbero tendere ad essere, allora, il volano del percorso di riflessione, impegnandosi a costituire un tangibile sostegno, e non un ulteriore appesantimento. Questo percorso abbraccia anche la riflessione sul senso delle nostre strutture, le quali, di conseguenza, sarebbe ottimale rappresentassero un supporto e un servizio. Altrimenti non hanno senso.

 

Detto ciò, noi pensiamo che nel concreto dovremo nel prossimo futuro valorizzare maggiormente il fine dell’Associazione,  che ha come missione l’educazione: dobbiamo quindi aiutare le nostre comunità ad essere sempre luoghi accoglienti, ma soprattutto, formativi. Dovremmo avere il coraggio di ammettere che impegnarsi in educazione è una proposta che facciamo, ovviamente, a tutti, ma che forse non è per tutti. Certamente non con l’intento di creare gruppi ristretti di associati, ma con la consapevolezza che impegnarsi in educazione oggi (forse più di ieri) significa dedizione coerente e, anche, sacrificio.

Quarantacinque anni fa Carlo Braca augurava tante cose belle a “la comunità capi in culla”. Difficile dire in quale luogo metaforico si trovi adesso la comunità capi, ma le auguriamo, per i prossimi anni, di essere poco in sede e molto, molto sulla strada, non solo simbolica.

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