Oltre la mediocrità

di Bill – Paolo Valente, con il contributo di Luia ed Elena]

Uscita di clan: su venti ci si ritrova in quattro. Verrebbero in dieci se si partisse più tardi e si tornasse prima. In tempo per prendere il treno. Perché il giorno dopo all’Università c’è una lezione imperdibile.

Campo invernale di reparto: si prega di non dare dietro ai vostri figli il cellulare, cari genitori. Poi più d’uno, di nascosto (ma in pieno accordo con la mamma: “Non farti beccare…”) il telefonino ce l’ha. Altrimenti come rassicurare ogni sera a casa che tutto fila liscio?

Il noviziato ha trovato un’ora per la riunione settimanale. Venerdì dalle 18 alle 19. Un’ora, appunto, e non un minuto di più.

L’uscita di branco è saltata perché faceva freddo, il ritiro di comunità capi invece si fa, però, durante la lectio, almeno in tre hanno da rispondere con procedura prioritaria ad altrettanti messaggi WhatsApp.

La domanda è: andiamo lo stesso in uscita, facciamo ugualmente quella riunione, quel ritiro, quell’hike? Oppure abbassiamo l’asticella? E fino a che punto, senza snaturare la nostra mission educativa? 

“Era una giorna¬taccia triste e nebbiosa nella scura stazione di Birmingham. Noi eravamo sbatacchiati tra una folla di operai sudici e di soldati fangosi e sporchi per il viaggio. Eppure, mentre ci aprivamo la strada tra la calca, io cominciai a guardarmi intorno, continuai per un po’, guardai ancora intorno, e finalmente, prima di continuare, potei fermare gli occhi su uno spettacolo che veramente riempiva lo sguardo. Penso che i miei com¬pagni non se ne fossero accorti, ma io avevo scoperto in quel posto cupo un raggio di sole che dava nuova gioia alla giornata. Non era che un’infermiera in uniforme marrone, con dei superbi capelli rosso-oro e con in braccio un gran mazzo di crisantemi gialli e scuri. Nulla di straordinario, direte voi. No, ma per coloro che hanno occhi per vedere, vi sono di questi raggi anche nella peggiore oscurità”.Lo racconta B.-P. nel Libro dei Capi e ci dice, in tal modo, non solo qualcosa del metodo, ma soprattutto degli orizzonti dell’educazione scout: imparare ad avere occhi per vedere, perché ciò che saremo in grado di cogliere poi ci può illuminare la vita.

Come quel raggio di sole che uno ha visto e gli altri no.
Come si arriva ad ascoltare ciò che altri non sentono, a vedere ciò che altri non vedono? Quel percorso che ci apre man mano gli occhi si chiama “scouting”. È lo stile che caratterizza ogni attività. C’entra col metodo, con gli strumenti educativi e col modo di porsi. È, secondo le definizioni, “quell’atteggiamento di proiezione verso l’ignoto, animato dal gusto di esplorare, di sfidare le proprie capacità/possibilità, che spinge a guardare/puntare in alto, ad andare oltre la frontiera, oltre i propri limiti”.

Ora fermiamoci un attimo: stiamo parlando di come meglio divertirci o divertire nel fine settimana, creando situazioni avventurose ed emozionanti, oppure stiamo parlando della “vita vera” e di come viverla pienamente?

Come capi scout siamo gli animatori del tempo libero dei nostri ragazzi o abbiamo la responsabilità educativa di offrire loro una prospettiva di vita autentica?

Puntare in alto, mantenere elevato il livello della proposta ai nostri ragazzi non è una questione di adesione formale allo scautismo (“se non fai così, non sei un vero scout”). Lo scopo ultimo dello scautismo non è produrre bravi lupetti, coccinelle, guide, esploratori, rover e scolte, ma accompagnare i nostri giovani ad essere persone libere e responsabili. E felici. Felici perché libere e responsabili.

Questo è l’orizzonte. È bello, è chiaro. Però non ne ricaviamo indicazioni precise per tutte le situazioni. Sta al capo di turno capire se quella uscita, in quel momento, con quei ragazzi, vada fatta anche in quattro o se sia meglio tirar fuori una nuova proposta. L’essenziale è che non si venga meno all’impegno di educare alla libertà (in primo luogo dalle comodità, dai pregiudizi e dalle dipendenze), alla verità e al bene.

Le cose vere e buone sono quelle che aiutano a vivere (anche se lì per lì sembrano non divertire). Si raggiungono e si vedono quando si esce da se stessi, dalle proprie case, dalle sedi, dalle certezze e dalle sicurezze. “Uscire da se stessi è uscire dal recinto dell’orto dei convincimenti considerati inamovibili, quando questi rischiano di diventare un ostacolo, quando chiudono l’orizzonte che è di Dio”, dice papa Francesco il quale, in questo, si rivolge forse più a noi capi che ai nostri ragazzi.

La mancanza di tempo (e di presenza continuativa) dei ragazzi è forse oggi la sfida più pressante per i capi. Li mette in crisi perché li costringe a chiedersi: i ragazzi, che guardano i capi, non avranno imparato da loro? Questa è già un’indicazione concreta: il capo è in primo luogo un testimone. Egli dice, con la sua presenza, che cosa significa “essere presenti”. Dice, col suo trovare il tempo per ascoltare, che cosa vuol dire prendersi a cuore le persone.

“Ci vuole del coraggio per educare”, scrive Baden (Al ritmo dei passi). “Ma soprattutto ci vuole la volontà di esigere da sé, prima, e dagli altri poi, una serietà e una totalità senza le quali non si trasmette nulla. Il ragazzo e il giovane hanno diritto a non essere ingannati, a essere invece aiutati a diventare forti per vincere le difficoltà e via via essere liberi nella loro personalità”.Se poi, malgrado la fatica, il capo si trova con tre o quattro ragazzi, smaltita l’arrabbiatura, si lascia interrogare da quella situazione. Ne parla con gli altri capi. Si chiede che cosa stia risucchiando il tempo e l’interesse dei suoi ragazzi.

Trova da solo, e non in qualche manuale, la risposta adatta al suo contesto. E poi parte per l’uscita, con quattro o con venti, l’essenziale è camminare. La domanda di fondo, in base alla quale valutare il livello e la qualità delle attività e delle proposte è: questo percorso ci aiuta ad andare oltre, a sfidare la corrente, a cancellare la mediocrità dalla nostra vita?Non si tratta, ricorda ancora Baden, di fare grandi cose. “Se un uomo sa distinguere il canto di un uccello e ferma il passo per non schiacciare una farfalla posata su un fiore, o raccatta un pezzetto di carta che un altro ha lasciato cadere, se sa accendere un fuoco sotto il diluvia¬re della pioggia, o prepararsi un rifugio per una notte all’addiaccio, se sa vedere mani protese per un tozzo di pane, o chinarsi su cuori in attesa di una parola d’amore, quello è uno scout”. Ma soprattutto: è una persona votata alla felicità.

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