Nell’ordinario come nello straordinario

di Paolo Vanzini

Pattuglia nazionale E/G.

«Anche se l’aspetto più spettacolare del nostro lavoro, i Jamboree e le crociate di pace di tempi più felici, rimane sospeso per la durata della guerra, vi è sempre l’altra più importante parte del nostro programma, che consiste nel dare ai nostri ragazzi senza clamore e metodicamente, con l’esempio e con la pratica, l’abitudine alla buona volontà, tolleranza e comprensione verso gli altri. Queste qualità, se radicate nei nostri scouts d’oggi, renderanno in futuro la guerra un fenomeno inconcepibile».

B.-P., Taccuino

Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale il pensiero di B.-P. sulla complessa natura del rapporto tra il servizio alla patria e la guerra aveva completato la sua evoluzione, maturando ormai una chiara posizione pacifista e decisamente differente dalle sue stesse convinzioni precedenti.

L’esperienza dello scautismo che contagiava tutti i continenti, iniziava a restituirgli una visione che oltrepassava la sua pur notevole lungimiranza e capacità profetica, ampliando la portata del messaggio che lui stesso aveva scritto. Si può dire che a un certo punto lo scautismo, con le esperienze che esso generava, stava sopravanzando il suo stesso ideologo accompagnandolo verso una maggior capacità di osservare, dedurre e agire. L’ufficiale che aveva posto le basi del suo pensiero in un’intensa vita militare in tempo di guerra, attraversando esperienze intrecciate con le luci e le ombre della cultura del suo tempo, aveva superato il limite mentale segnato dai confini e dalle separazioni tra i popoli, il senso di patria come baluardo da difendere e le tracce del militarismo che inizialmente rimanevano nel suo gioco educativo.

La guerra era definitivamente un «fenomeno inconcepibile» alla cui stessa idea occorre resistere, dedicandosi nel frattempo non già a combattere per difendere i propri confini bensì a educare i ragazzi.

Le sue parole suonano eccezionalmente attuali oltre che decisive: i più importanti tra gli obiettivi dello scautismo restano la buona volontà, la tolleranza, la comprensione verso gli altri. Ma si osserva un cambio di paradigma e probabilmente un segnale della definitiva maturità del movimento in senso educativo: la risposta dello scautismo alla guerra è nell’educazione delle giovani generazioni prima di ogni altra cosa. Perché è quello il territorio in cui può dare i suoi frutti migliori.

È molto interessante che questi ingredienti siano associati alla forma “più spettacolare” di scautismo, quella espressa nei Jamboree. Il non plus ultra dell’incontro di diversità e somiglianze, di scoperte e conferme. Una specie di brodo primordiale per l’evoluzione di donne e uomini di pace, una marmellata che, mettendo insieme con semplicità le persone con le loro complesse e ricche identità, ha la capacità di generare, diceva il fondatore, «simpatia e armonia». Ovvero quei sentimenti che permettono di avvicinarsi con rispetto, incontrarsi, conoscersi e apprezzarsi reciprocamente, costruendo l’ambiente adatto per capirsi, trovare linguaggi comuni per confrontarsi e anche mettersi in discussione con reciprocità.

A questo punto diventa possibile imparare dagli altri, uscire da se stessi, sperimentare la solidarietà, misurare la propria realtà, vivere la compassione, arrivare al cuore, al senso di condividere il mondo meraviglioso che abitiamo.

Poche esperienze permettono in un tempo tanto breve e con tanta profondità di scoprire valori che vanno, ben oltre l’accoglienza, direttamente al senso della solidarietà profonda, dell’amicizia e del rispetto. Sentimenti che nascono dall’aver conosciuto o anche semplicemente avvicinato la persona che sta in quei panni così differenti dai miei. Ma quella diversità che in altri contesti innesca prima di tutto diffidenza se non paura, si rivela come una ricchezza da donare e da ricevere gratuitamente, con una chiarissima percezione di un reciproco immenso vantaggio.

In questo contesto semplicemente si parla con l’altro, si entra in contatto, si ascolta la sua storia e si racconta la propria. Si può confrontare in maniera diretta il buono, il bello, il brutto, meravigliandosi e suscitando meraviglia.

Soprattutto si fanno cose insieme, si condividono parti di sé e nel fare questo, inevitabilmente, si capisce qual è la scelta vincente: accogliere le differenze arricchisce entrambi.

Partecipare a un Jamboree lascia una traccia indelebile nel cuore e nella mente. Permette di rileggersi in profondità perché ci si ritrova in una situazione eccezionalmente intensa. Fornisce dimostrazioni chiare, indiscutibili, lampanti, che restano nel tempo perché mettono radici nel terreno fertile delle esperienze reali.

Chi ha vissuto un Jamboree se lo porta dentro per sempre ed è improbabile che non lo manifesti anche fuori. Pur con le sue criticità e complessità, con gli aspetti più faticosi e con i difetti che sono il naturale specchio del limite umano, procura la certezza che si può davvero fare. Che se si trova il coraggio di rischiare l’incontro con l’altro, abbandonando i pregiudizi, aprendosi all’ascolto, offrendosi per quello che si è, si costruisce quel ponte che permette di attraversare qualunque confine. A quel punto l’accoglienza diventa un elemento naturale e spontaneo. Uno stile di vita, e il conflitto perde qualunque senso.

Poi ci sono gli anni meno sensazionali, quelli in cui non c’è una cosa “spettacolare” come il Jamboree. Quelli in cui siamo chiamati a trasmettere gli stessi valori di «tolleranza e comprensione verso gli altri» con la nostra vita.

Credo che le parole di B.-P. volessero dire che c’è perfetta equivalenza tra il momento sensazionale e il messaggio quotidiano che ogni capo può testimoniare con un atteggiamento accogliente. Se si può fare nello straordinario, tanto più si dovrebbe nell’ordinario. Perché è lì che, con più tempo e più ragazzi, possiamo davvero sbloccare un mondo nuovo.

Chi ritorna da un Jamboree porta con sé l’esperienza di un sogno possibile e auspicabile per il mondo, per cui vale la pena scegliere un’adesione profonda e una testimonianza coerente.

Per questo dovrebbe essere accolto a sua volta, al suo ritorno, da chi lo ha inviato e lo attende sulla soglia per ricevere questa ricchezza e iniziare a moltiplicarla.

Chi lo scautismo lo vive nell’ordinario – sempre che di ordinarietà si possa parlare – ha le stesse possibilità. «Senza clamore, metodicamente, con l’esempio e con la pratica», se è possibile al Jamboree si può fare anche al di fuori.

È una questione di scelta di un modello di relazione che considera l’altro un tesoro di cui arricchirsi e al contempo se stessi un tesoro da donare. E nel momento in cui si riesce a intuire la prima, la seconda è una scelta naturale e conseguente.

[Foto di Martino Poda]

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