“Mani abili” è uno stile per avvicinarsi agli altri e al mondo
Alessandro Vai
Tanti fattori pongono un freno al mettere in gioco le nostre mani. La paura del giudizio altrui sulle nostre qualità, la tentazione di delegare a qualcuno più preparato di noi, l’apparente onnipotenza del mondo digitale. Questo è vero per noi quanto per i nostri ragazzi. Ma per rappresentare il bello e per costruire l’utile – due cose che sono proprie delle nostre attività – saper usare le mani è necessario. In una comunità che funziona, come i nostri spiriti hanno diverse inclinazioni così anche le nostre mani hanno diverse predisposizioni. A un campo di reparto ben avviato sappiamo chi può darci una mano a tirare una legatura, piuttosto che a preparare il soffritto per 50 persone, o per progettare la coreografia del fuoco di questa sera. Mani forti si nasce, mani abili, invece, si diventa.
La natura e lo stile di essenzialità che proponiamo nelle nostre attività sono in teoria il terreno ideale per proporre ai ragazzi la necessità e l’urgenza di far muovere le mani. Quando si hanno poche risorse e tanti bisogni è necessario arrangiarsi, lavorare di pensiero trasversale. Proprio perché non siamo professionisti di tutte le tecniche, proviamo a sopperire con quel poco o tanto che invece conosciamo. Osservare-dedurre-agire, prima che un workflow mentale, è innanzitutto una modalità di approccio ai problemi pratici.
Non basta tuttavia lasciare i ragazzi in mezzo ai problemi, perché questi sviluppino da soli quel senso di adattamento che chiamiamo mani abili. Anche qui c’è un alfabeto che, tra i tanti presenti nell’educazione scout, va costruito con gradualità e perseveranza dall’L/C all’R/S. Dai primi nodoni e scooby-doo, alla preparazione attenta dei travestimenti ai campi, dalle prime esperienze con il fuoco alla cucina durante una route, le nostre attività offrono tante occasioni per incuriosirci rispetto a nuove tecniche, provando in concreto con le nostre mani.
Noi capi non siamo chiamati né formati a essere degli esperti su tutto. Ci muoviamo – letteralmente – dai monti al mare all’ambiente cittadino, dalle rappresentazioni espressive di ogni tipo alle costruzioni di sopraelevate, passando per le tombole parrocchiali. Nel tempo qualche competenza sicuramente l’abbiamo messa da parte. Dove non è così, ci guida il buon senso della cautela assieme alla fiducia che le nostre mani qualcosa di buono possono fare. Facendo servizio in branca R/S a tutti sarà capitato un sifone da mettere a posto e proprio noi gli unici a poter metterci mano. Non bisogna essere idraulici, ci si prova… E se poi non va – il fuoco non si accende, la riparazione della tenda decisamente non ha tenuto, il forno sottoterra al campo al massimo intiepidisce – abbiamo sempre la morale positiva. Sta a noi mostrargli comunque il lato utile, magari condito con un tocco di ironia, di ciò che abbiamo vissuto.
Le mani permettono di trasformare e riparare ciò che abbiamo. L’eccessiva immediatezza con cui possiamo disporre di tutto, toglie spazio al bisogno che è motore per immaginare, progettare e realizzare. Non credo sia tanto un problema se ripariamo il portante della tenda di squadriglia con un pezzo fatto a mano, piuttosto che stampato in 3D, ma forse lo è se risolviamo semplicemente acquistando un palo nuovo grazie al solito autofinanziamento a base di torte.
Le mani ci permettono di creare segni, che rimangono nel nostro ricordo e nei nostri cuori, forse più delle parole. Penso a una progressione personale mentre si intaglia una stella alpina da utilizzare per l’altare della Messa, partendo da un comune rametto. Oppure a quel vasetto riparato durante la veglia di Pasqua con la tecnica del Kintsugi, che tiene assieme con la colla d’oro dell’Amore tanti pezzi quanti sono i difetti di ciascun membro del Clan.
Papa Francesco – riferendosi alla parabola del Buon Samaritano – ha ricordato che il tatto è il senso dell’accudimento delle persone, e della vita tutta («Il tatto è il senso più completo, che ci mette la realtà nel cuore»). Allora avere mani abili non vuol dire solo essere un “praticone”, ma uno stile per avvicinarsi agli altri e al mondo. In chiave educativa, e non solo.
Sull’educare alla competenza attraverso le tecniche scout leggi l’articolo Steve Jobs, B.-P. e i giardini di Stanford di Stefano Capuzzi, Incaricato nazionale al settore Competenze.
[Foto di Francesco Ghini]
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