MA TU DIMMI, SEI FELICE?

di Vincenzo Pipitone

Accogliere davvero i desideri dei ragazzi

Lei aveva un sogno del cuore; mi disse che lo coltivava da piccola, certamente lo capì tempo dopo, ma era quello il suo destino, la sua chiamata. Non altro! Non quello che i genitori avevano sognato per lei, né quello che i capi le avevano suggerito; quello, non altro. Quella scelta incredibile quanto incomprensibile per gli umani dell’oggi. Un percorso dal sapore antico ma, proprio per questo, inaspettato e sconvolgente, quindi tanto originale. Sconvolse anche me. Non volevo crederci: razionalizzarlo mi risultò difficile. Non ero d’accordo e glielo dissi. Significava stravolgere la sua vita, ricominciare da capo, abbandonare tutto e tutti, rimettersi in cammino. «Ma tu non pensi ai tuoi amici, ai tuoi genitori? Solo a te stessa? Quanto sarà difficile tornare indietro? Ci pensi?».

«Ruba tutti i colori del mondo e dipingi la tela della tua vita eliminando il grigio delle paure e delle ansie. Abbandona i tuoi vecchi abiti mentali e vestiti di allegria» (Omar Falworth). Così mi rispose, con una frase spiazzante che sintetizzava la sua scelta, una risposta alla sua ricerca di FELICITÀ: «Una gioia che riempie la vita, così tanto da correre in fretta e urlarla a tutto il mondo. Sono giovane e con la mia scelta ho dipinto la mia tela di tutti i colori del mondo e sono felice! Ma ho bisogno di continuare a esserlo e a dipingere sulla tela della mia vita. Quindi non dimenticare di continuare a pregare per me».

È vero, in un attimo la mia identità si scontrava con le mie mediocrità, le avevo mancato di rispetto. Mi ero perso nei pensieri di chi la circondava piuttosto che indagare sulla sua felicità. Non mi interessava se questo la rendeva felice, se finalmente aveva dato un senso alle cose, un senso verso se stessa e verso il mondo. Avrei dovuto farle solo una domanda, nulla di più. Nessuna considerazione, nessuna speculazione sul senso della vita, sugli altri, su altro. Una sola domanda: «Sei felice?» e un solo consiglio (con le parole di Agostino): «Volo ut sis», voglio che tu sia quello che sei.

Avevo fatto inconsapevolmente uno degli errori più grandi: ascoltare me, non lei; ascoltare il papà, la mamma, persino i nonni e gli amici, non lei. Non avevo rispettato il suo diritto ad essere se stessa, diversa da come altri l’avrebbero voluta. Doveva assecondare le nostre aspettative senza che noi l’avessimo accompagnata a scoprire la sua natura. Da quel momento in poi intrecciai una vera relazione e poi, ancora ora, un rapporto amicale intenso, acquisendo sempre più una diversa consapevolezza sulle dinamiche educative, sul senso dell’adultità, sul mio ruolo, sulla mia capacità di saper stare sull’uscio e di entrare nella sfera altrui quando mi è permesso, una maggiore sensibilità, che ancora oggi capita di tradire, ma si sa il capo inciampa spesso («chi non fa nulla non sbaglia mai», cit!).

Nessuno nasce sbagliato, senza capacità emotive, incapaci di cogliere la felicità quando ne viene attraversato. Secondo diverse ricerche, più i ragazzi crescono, più diminuisce in loro la fiducia e il livello di benessere. Siamo passati da una generazione pronta ad aggredire un futuro minaccioso (a tal proposito, nello scorso numero, l’esperienza della scuola di Barbiana ci dice tanto), ad una generazione fiduciosa, a quella odierna con un “futuro già passato”, anestetizzato.

I nostri ragazzi ci dicono che per essere felici hanno bisogno di qualcuno accanto al momento del bisogno. Qualcuno che voglia loro bene, che voglia il loro bene, che li aiuti nella ricerca di sé, quello che chiamiamo destino e che meglio potremmo tradurre nella ricerca del loro nome. Nulla a che vedere con la notorietà, farsi un nome per vincere la morte e così rinascere alla vita ogni giorno. «Se smettiamo di ricordare chi siamo o chi possiamo diventare rischiamo di soffocare… minacciati da quell’illusione di potere diventare ciò che si vuole, invece di ciò che si è» (A. D’Avenia).

Come si fa? Beh, mettendo i ragazzi nelle condizioni di capire per cosa sono stati chiamati, nelle condizioni di ascoltare il proprio Armadillo (Zerocalcare docet), ascoltarli: Ask the boy. Da adulti che non smettono mai di crescere, impegnati nella vita, autentici: «libero il mio tempo per te». Capi a zig-zag insomma! (inquadra il QR Code). Adulti capaci di incoraggiare la ricerca di felicità soprattutto nei momenti di difficoltà, di angoscia. Non «ce la devi fare», ma «ce la puoi fare». Capaci di instillare dubbi e sostenere certezze.

Adulti che non hanno paura di fallire perché il fallimento in realtà non esiste. Educare al fallimento è un’insopportabile espressione che dovremmo bandire dal nostro linguaggio. Non falliamo mai! Chi fallisce lo fa per sempre e perde ogni speranza. La vita – sempre gli antichi ci vengono incontro – è come un labirinto unicursale, un cammino verso il centro di noi stessi, in cui si richiede un continuo riorientamento; ostacoli, ma niente cadute dunque; crolli, un cammino che passo dopo passo ci conduce ad uscire da dove siamo entrati: dalla vita alla vita.

Chiedimi se sono felice!

[Foto di Andrea Pellegrini]

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