AMATI, DONATI, FELICI

di Valeria Leone


Si può educare alla felicità?

Alla fine la Partenza non l’ha presa, ma ogni volta che lo incontro e mi racconta un pezzo della sua vita, sono il cuore, la testa e i piedi di un giovane uomo a parlare. Il cuore di chi ascolta il Bene che lo muove, la testa di chi sa che quel Bene va scelto, e i piedi che lo portano dove serve: che siano le periferie di città ferite dalla guerra, le frontiere ingiuste di questo nostro mondo o le realtà di quartiere sotto casa. E gli occhi, felici.

E a colpirmi, ogni volta, non sono tanto le scelte in sé, per quanto importanti, quanto la Vita che lo abita, così potente da chiederti da dove arrivi; così naturale, mai ostentata; così piena. Un freddo pomeriggio d’inverno, in route, mi ha detto che sognava di fare qualcosa di grande nella sua vita e gli ho assicurato che avrebbe trovato il suo posto nel mondo e lì sarebbe stato felice.

Ogni persona ha il suo. È il posto in cui sappiamo ascoltare la realtà che ci chiede chi vogliamo essere e cosa possiamo fare, è il posto in cui non rifuggiamo le domande ma abbiamo anche qualche risposta, è il posto in cui sentiamo di essere pienamente noi: amati, donati, felici. È un posto talvolta difficile da trovare, è piuttosto scomodo da abitare, perché “essere nel mondo” esige farci i conti, anche quando fa male, anche quando non abbiamo abbastanza coraggio, anche quando sbagliamo, anche quando perdiamo, anche quando ci sembra di non poter essere o fare abbastanza, anche quando ci sentiamo sopraffatti.

Sopraffatti è la parola che sceglierei se mi chiedessero di raccontare in alcuni momenti i ragazzi e le ragazze che mi hanno accolta in clan lo scorso anno. E possiamo dirci nelle nostre preziose riunioni a tutti i livelli associativi che «la scuola, l’università, gli impegni, la fatica a scegliere in un mondo in cui ci sono tante possibilità, la pressione sociale» – tutte cose vere, s’intende – ma ecco, cosa ce ne facciamo? Cosa possiamo fare noi che con quei ragazzi (ma vale anche per gli L/C e gli E/G) siamo chiamati a camminare? A cosa serviamo di fronte alle loro domande? Ai loro occhi a volte affaticati? Ai loro cuori arrabbiati?

Vorrei dirci che siamo chiamati a riconoscere la vita che ci attraversa, noi per primi.

Che siamo chiamati, come persone prima che come capi, a sapere qual è il nostro posto nel mondo. A rinnovare il nostro eccomi a ogni chiamata, capaci di affidarci con fiducia a Chi ci ha scelti nonostante i nostri poveri “strumenti umani”. O proprio per quelli.

Che siamo chiamati a essere fedeli nell’Amore.

Che siamo chiamati, come capi, ad accompagnare i nostri ragazzi e ragazze a riconoscere cosa c’è di vero nelle esperienze che vivono, nella vita che accade, nelle relazioni che hanno.

A preparare la strada con cura e pazienza, quella strada che permetterà loro – passo dopo passo, anno dopo anno – di sentirsi chiamati. Di sentire che c’è quel posto nel mondo e che non si può più aspettare, che occorre partire, perché quando lo riconosci l’Amore, «fa nuove tutte le cose». Che siamo chiamati a riconoscerlo insieme quell’Amore, a raccontarcelo, a guardarlo e a vivificarlo con occhi e gesti gentili. A riconoscere i segni della sua presenza nella nostra vita, e non importa se fin da subito non sarà così per tutti e per tutte, forse non lo sarà mai, forse lo sarà un domani, nelle pieghe della vita che non ci vedranno più accanto a loro. Perché quell’Amore non si quieta, non ci fa sentire mai a posto, mai arrivati, mai al sicuro. Felici sì, però.

[Foto di Margherita Ganzerli]

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