L’uomo (e la donna) è ciò che…

L’uomo è ciò che mangia – scriveva nell’Ottocento il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach –, non solo perché la sua salute dipende da come si nutre, ma anche perché il cibo di cui dispone rivela il suo stato sociale, le risorse che ha a disposizione, le sue possibilità… Si tratta di un’affermazione volutamente paradossale, improntata a un materialismo esasperato che tendeva a subordinare anche le facoltà “superiori” dell’essere umano alle contingenze più elementari. Spingendoci più in profondità, noi possiamo dire che l’uomo è invece prima di tutto ­ciò che vede, ciò che ascolta, ciò che legge… È tutto ciò che dall’esterno entra in lui e lo sollecita, lo interroga e lo mette in grado di dare risposte, diventa parte di una dimensione che noi diremmo “spirituale” e che contribuisce a determinare il suo modo di percepire se stesso, gli altri e il mondo che lo circonda. Questo in parte ci distacca e ci eleva rispetto al “cibo” di Feuerbach, ma al tempo stesso non possiamo nasconderci di correre il rischio ­– analogo a quello “alimentare” – di rimanere soggiogati da quanto, attraverso diverse “porte”, penetra dentro di noi. Magari senza neppure rendercene conto. Non di rado, infatti, bombardati come siamo dagli innumerevoli messaggi costruiti ad arte e lanciati dai media più diversi, non ci accorgiamo di come certi modelli di pensiero finiscano con il condizionare i nostri gusti, le nostre idee e, in definitiva, i nostri comportamenti e la nostra stessa identità.

Da molti decenni vengono messe a punto dagli esperti di comunicazione tecniche sempre più raffinate volte a influenzare le scelte degli individui in campo economico, politico, sociale (basti pensare alla pubblicità e alla propaganda politica). Volenti o nolenti, dobbiamo riconoscere che ciascuno di noi è frutto di molti condizionamenti, assai più numerosi e ingombranti di quanto non possa pensare. Quando arriviamo a esserne consapevoli, dovrebbe sorgere in  modo naturale il desiderio di sviluppare uno spirito critico che ci permetta di difenderci, di recuperare una nostra autonomia di pensiero e di comportamento costruita intorno a un quadro di valori al quale scegliamo di fare riferimento. Questo diventa di fondamentale importanza soprattutto per chi vive l’età evolutiva. Di conseguenza, è facile capire quanto sia delicato, e in parte decisivo, il servizio di educazione che siamo chiamati a compiere nei confronti dei più giovani.

Non stiamo dicendo nulla di nuovo o di originale, ma il compito nostro è a volte semplicemente quello di richiamare l’attenzione su alcuni fenomeni e offrire qualche indicazione per comprenderli meglio. E parlando del tema dell’affettività e della sessualità ci sembra importante far notare come negli ultimi anni i media si siano fatti più insistenti e sfacciati nel proporre apertamente modelli di comportamento improntati a una sempre maggiore superficialità. Dove per superficialità si intende un modo di presentare la dimensione della sessualità come sganciata da qualsiasi riferimento alla sfera dei sentimenti e a un’etica tesa anche semplicemente a salvaguardare la dignità della persona, ben prima di qualsiasi valutazione di tipo religioso.

Dunque, pensando ai ragazzi e alle ragazze dei nostri gruppi,  non possiamo ignorare che sono moltissimi gli stimoli e i messaggi che ricevono dai media non solo per quel che riguarda la formazione di certi stereotipi che circondano la figura maschile e quella femminile, ma anche per quanto concerne un certo modo di vivere ed esprimere gli affetti e i sentimenti, pure attraverso comportamenti strettamente legati alla sessualità o all’uso della genitalità. Non si tratta di essere “bacchettoni”, intraprendendo l’ennesima crociata contro i media accusati delle più turpi sconcezze… Ma non si può neppure essere troppo ingenui e faciloni. Sarebbe invece interessante, per noi educatori, dedicare del tempo a guardare, per esempio, programmi televisivi (per poi magari affrontare anche lo sterminato mondo del web) rivolti agli adolescenti nei quali vengono proposti modelli con i quali i nostri ragazzi si trovano in qualche misura a confrontarsi e, in certi casi, a conformarsi. Negli ultimi anni se ne sono visti parecchi andare in onda (a tutte le ore) sulle reti televisive commerciali, tra i quali uno studio approfondito meriterebbero, per esempio, la serie Skins, realizzata nel Regno Unito e trasmessa a partire dal 2008 fino all’inizio di quest’anno su MTV, e la più recente Shameless, realizzata a partire dal 2011 e in onda su La5, il cui titolo (“senza pudore”) dice già molto in ordine al contenuto. Ugualmente, pare che tra gli adolescenti vadano assai di moda reality show come Geordie Shore, o il più recente Gandia Shore (proposto in prima serata su MTV), dove il vissuto affettivo e sessuale dei protagonisti viene messo in piazza senza alcun ritegno, all’insegna della banalizzazione più imbarazzante.

Programmi di questo genere, che mediamente sono guardati dai ragazzi a partire dai 15 anni, andrebbero fatti oggetto di un’attenta analisi da parte di noi educatori, anche facendoci aiutare da specialisti della comunicazione, per decodificarne i messaggi e comprendere quali modelli di pensiero e di comportamento propongono e in che modo fanno breccia nella mente degli adolescenti. Una volta analizzati e capiti, questi programmi potrebbero anche essere fatti oggetto di attività nei nostri noviziati e nei nostri clan/fuoco, per capire quale sia il loro impatto, in quale modo condizionino il modo di considerare le relazioni interpersonali e l’esercizio della sessualità in un’età nella quale le persone si stanno formando. Sarebbe interessante capire se i ragazzi mostrino qualche sorta di “anticorpo” valoriale di fronte alla superficialità che queste trasmissioni esprimono, oppure siano in qualche modo “assuefatti” a un certo modo di vivere la dimensione degli affetti e della sessualità, fino al punto da considerare tutto quanto come “normale”, sdoganato in un fumoso e inconsistente “ognuno fa quel che gli va di fare”. Assuefazione…: un po’ come accade con i veleni assunti un poco per volta. Perché, risalendo alla superficie e facendo di una frase paradossale un’immagine del nostro essere, si può essere pur sempre portati a pensare che “l’uomo è ciò che mangia”.

Claudio Cristiani

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