Lumen gentium

Storia di un dibattito sulla collegialità

Cinquant’anni fa, nel secondo periodo conciliare ormai presieduto da Paolo VI – succeduto a Giovanni XXIII nel giugno dello stesso anno –, il Concilio si trovava davanti a un passaggio delicatissimo: la costituzione conciliare concernente l’identità e il ruolo Chiesa nel mondo contemporaneo: quella che poi sarà approvata con il titolo Lumen gentium.

Abbiamo chiesto ad un esperto del tema di darci una panoramica storica di quegli avvenimenti.

 

 

Nessuno se ne accorgerà: ma il mese di ottobre porterà con sé un cinquantenario invisibile e decisivo per il cattolicesimo romano, che è quello del grande dibattito del 1963 sulla costituzione della chiesa e sulla divina liturgia.

 

La costituzione De Ecclesia della fase preparatoria, tutta basata su una ecclesiologia giuridico-politica discendente del potere, era stata duramente criticata nell’ultima settimana di dibattito del primo periodo conciliare. In quei giorni di dicembre del 1962 i grandi cardinali erano intervenuti per proporre assi tutt’affatto diversi della visione di chiesa: la distinzione su ciò che riguarda il dinamismo interno della chiesa e ciò che riguarda la sua azione all’esterno (la nota dialettica ad intra/ad extra), il valore del battesimo, la povertà di Gesù come norma della chiesa, il ruolo del laicato, la dignità dei vescovi come singoli e come collegio erano state le parole lanciate durante quegli interventi che non denunciavano la insufficienza di una ecclesiologia essenzialista.

 

A gennaio del 1963 una nuova commissione, incaricata di ristrutturare l’agenda del Vaticano II e di fatto di dargli una nuova preparazione, individuava due assi ecclesiologici, fondamentali uno di “comunione” e l’altro “giuridico” che nell’opinione di alcuni avrebbero dovuto permettere di riscrivere la costituzione conservandone però parti e spezzoni. In quella revisione fatta con “forbici e colla”, secondo un espressione di Giuseppe Dossetti (che non voleva essere un complimento) sarebbe andata in discussione ad ottobre del 1963, in associazione con una discussione molto rilevante della riforma liturgica che in quel mese trovava la sua stesura finale.

 

Ma in quello che fu uno dei più profondi e lunghi dibattiti del Vaticano II la nuova versione della costituzione sulla chiesa incontrava resistenze non solo e non tanto da chi prevedeva le controversie che si sarebbero generate con soluzioni di compromesso, ma soprattutto  da parte di voci conservatrici che cercavano di difendere l’assetto ecclesiologico sviluppatosi alla fine del pontificato di Pio XII e che mettevano questo tipo di ideologia immobilista della chiesa al riparo di una difesa del primato papale e del papato. Questo tipo di accusa aveva un ascendente potenziale sui vescovi: la parte più reazionaria dell’episcopato supponeva di far scattare automatismi mentali generati dalla lunga stagione della repressione antimodernista.

Chi aveva avuto una funzione autoritaria e di controllo credeva infatti di essere maggioranza in aula o comunque di poterlo diventare nel momento in cui fosse passata l’idea che non erano una ecclesiologia giuridicista ed una di comunione ad affrontarsi, ma una ecclesiologa papale e una antipapale di cui la collegialità era un camuffamento.

 

Per sventare questa manovra che avrebbe fatto decidere per paura e non per fede, i vescovi i moderatori e Dossetti (che in quell’ottobre era il loro segretario) decisero di sottoporre all’assemblea dei quesiti orientativi: non dunque delle formule o delle proposizioni del testo, ma linee di fondo su cui scrivere formule e paragrafi. Consultato così sul fatto che i vescovi ricevono i loro carismi e potestà per consacrazione (e non perché un capitolo o un papa gli “dà” una diocesi) e sul fatto che nel loro insieme (Pietro incluso) essi succedono al collegio apostolico,  il concilio ha una risposta che decide le sorti del Vaticano II: più di 4/5 dei vescovi riconoscono utili e legittime quelle tesi che pochi padri, ma di grande peso in curia e fuori, volevano condannare. Su questa base fra il 1963 e il 1964 la Lumen Gentium prende forma.

Lo scoprirsi perdente di quello che era stato un nucleo solidissimo di potere, convince infatti questa  minoranza di vescovi conservatori a tentare due carte per “limitare” il danno: da un lato inizia una azione  di pressione sul papa che logora Paolo VI (convinto di poter pretendere,  qualche rinuncia in termini dottrinali al fine di ottenere quella unanimità che il Vaticano II non avrà mai e la sua ricezione neppure) dall’altro apre una vera e propria manovra di filibustering sul testo, sottoposto, prima della approvazione finale del 1964 ad una raffica di emendamenti che dovrebbero convincere i vescovi ostili alla collegialità a votare la Lumen Gentium e che invece ne rendono solo più singhiozzante la lettura.

Dopo il concilio della collegialità non si farà nulla: il sinodo dei vescovi avrà funzioni consultive; la curia romana rimarrà organo esecutivo della potestà papale; il peso degli episcopati e dei loro organi di comunione (come le conferenze) sarà ridotto dalla loro burocratizzazione e da una delegittimazione teologica proseguita costante per decenni.

Della Lumen Gentium farà fortuna soprattutto non la sua fondazione della dignità dei battezzati e della loro vocazione, ma quella idea di promozione del laicato, come corporazione o in aggregazioni di movimenti, che aveva un senso in un’altra visione di chiesa.

Piccoli spezzoni, come quelli del numero 8 sulla povertà sembreranno residui traditi, come i sogni disillusi di cui parlava l’ultimo Martini: poi è venuto il marzo del 2013, l’elezione di un papa che al centro della ecclesiologia non mette la chiesa ma Gesù, che ridà alla povertà la dignità cristologica che le è propria, che pare voler uscire dalla stagione priva di collegialità del cattolicesimo romano. Gli storici si sono premurati da tempo di dire che nella ricezione, il processo al quale è demandato il compito di decantare atti e parole dei grandi concili, cinquant’anni non erano un tempo così lungo da permettere di dare per tradito o assimilato alcunché: in questi decenni il Vaticano II e la sua esperienza di chiesa generata dal vescovo celebrante s’è impastata alla vita dei cristiani comuni. Forse adesso si vede qualcosa anche in capite.

Alberto Melloni

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