L’intimo della comunità Capi

[di Pippo Panti]

Mi sono sempre chiesto come mai fra tutti “i capi costituenti l’uniforme prevista, il cui uso è riservato solo agli associati” non sono presenti i capi di biancheria, ossia mutande e canottiera/maglietta. Perché il Consiglio generale, a cui spesso è stato chiesto di “deliberare” su vari indumenti che poi non hanno avuto la fortuna di vedere la giusta distribuzione nelle varie rivendite scout, non è mai stato chiamato ad esprimersi su tutta una varia serie di slip, boxer, canottiere della salute con maniche o con le intramontabili spallini sottili?

So che può sembrare una domanda sciocca e probabilmente sarò l’unico che se la sia mai posta, ma a mio avviso, è un quesito che in realtà risulta essere più interessante di quello che sembra, anche e soprattutto per la risposta che mi sono dato: sono cose che ci sono, ma non si vedono o almeno non si dovrebbero vedere (ecco forse il motivo della diffusione di tutte quelle T-shirt, multicolori e un po’ indecorose).

Quindi al di sotto e all’interno di quel che siamo, anche come Agesci, ci sono elementi di cui conosciamo l’esistenza, ma che capiamo davvero come sono fatti solo quando ci vengono svelati.

Se mi permettete il salto, questo significa che anche dietro i contenuti della nostra proposta e nelle articolazioni delle nostre strutture, vi sono degli elementi che seppur presenti non sono né espliciti né si è pensato di doverli esplicitare perché già patrimonio diffuso. Questo significa però che, alle volte, per poter capire davvero non basta leggere, bisogna approfondire, è necessario scalfire la superficie per vedere di quale materiale è davvero fatta una cosa. E’ davvero troppo facile restare abbagliati se si fissa il pelo dell’acqua e non vi ci si immerge.

Sulla scorta di questo, una volta imbattutomici, mi è sorta la curiosità di sapere, e forse qualcuno conosce la risposta, se nelle riflessioni che hanno portato alla definizione della comunità capi, si è tenuto presente questo scritto che vi propongo:

“Una relazione sociale deve essere definita ‘comunità’ se e nella misura in cui la disposizione dell’agire poggia – nel caso singolo o in media o nel tipo puro – su una comune appartenenza soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale) degli individui che a essa partecipano.

Una relazione sociale deve essere definita ‘associazione’ se e nella misura in cui la disposizione dell’agire sociale poggia su una identità di interessi, oppure su un legame di interessi motivato razionalmente (rispetto al valore o rispetto allo scopo). In particolare (ma non esclusivamente) l’associazione può basarsi, in modo tipico, su una stipulazione razionale mediante un impegno reciproco. Allora l’agire associativo è orientato, nel caso della sua razionalità:

a) razionalmente rispetto al valore, in base alla credenza nella propria obbligatorietà;

b) razionalmente rispetto allo scopo, in base all’aspettativa della lealtà dell’altra parte.”

Una comunità può riposare su ogni specie di fondamento affettivo o emotivo, o anche tradizionale – per esempio una confraternita ispirata, una relazione erotica, un rapporto di reverenza, una comunità ‘nazionale’,  una truppa tenuta insieme da legami di cameratismo. A questo tipo appartiene, assai comodamente, la comunità familiare. La grande maggioranza delle relazioni sociali ha però in parte il carattere di una comunità, ed in parte il carattere di un’associazione. Una relazione sociale, per quanto sia razionale rispetto allo scopo, e freddamente creata per attuare un certo fine (ad esempio la clientela,) può far nascere valori di sentimento che procedono oltre lo scopo arbitrariamente posto. In tal senso inclina, seppure in grado assai diverso, qualsiasi associazione che vada al di là dell’agire attuale di una unione di scopo, che instauri quindi relazioni sociali di lunga durata tra le medesime persone, e che non sia fin dal principio è limitata a particolari prestazioni  oggettive: di questo genere sono, ad esempio, l’associazione nello stesso reparto dell’esercito, nella stessa classe scolastica, nello stesso ufficio, nella stessa officina. In modo analogo una relazione sociale, il cui senso normale sia quello di una comunità, può viceversa essere orientata, da tutti o da alcuni dei partecipanti, in maniera totalmente o parzialmente razionale rispetto allo scopo. Per esempio è molto diversa la misura in cui un gruppo familiare è, dai partecipanti, sentito come ‘comunità’ oppure utilizzato come ‘associazione’.

(dal capitolo 9 di “ Economia e Società”- introduzione di Pietro Rossi – 1: Teoria delle categorie sociologiche. Milano : Edizioni di comunità, 1981)

 

Tornando al ragionamento iniziale e restando nella metafora, credo davvero che WEBER potrebbe essere proprio una buona marca per un paio di mutande|

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