Liberare la brace

di Pietro Barabino

 

«Vorrei entrare in comunità capi, ma studio fuori, ho poco tempo!» Sono queste le ultime parole pronunciate con il fazzolettone al collo da Giorgio. Curioso, creativo, impegnato, concreto, serio (mai serioso).

Sarebbe stato il capo ideale, ma le sue potenzialità le esprimerà altrove, perché la sua disponibilità «a pezzetti» non è ritenuta sufficiente dalla comunità capi.

In compenso, entrerà Gabriele, socio del circolo Uaar (Unione Atei e Agnostici Razionalisti) del paese, già consigliere comunale della lista civica «Prima noi». L’unica cosa che gli piace fare agli scout sono le costruzioni e sull’avambraccio porta un tatuaggio con il suo motto: «Me ne frego». Non proprio l’idealtipo dello scout, però indossa volentieri l’uniforme e ha un sacco di tempo libero da dedicare all’Associazione.

Gli esempi sono faceti e forzati, ma la problematica è sentita in Associazione: in molti gruppi entrano pochi capi, «non durano» e in alcuni casi, chi resta, sembra farlo per inerzia.

Questa situazione porta, spesso, le comunità capi a soprassedere sulla congruenza dei singoli capi con il Patto Associativo, dando priorità alla disponibilità più che alla consapevolezza. Come un’azienda che, per incassare di più, inizia a risparmiare sulle materie prime, molte comunità capi finiscono per abbassare l’attenzione sulla validità delle scelte dei capi, premiando chi «produce» di più, pur di tirare avanti il gruppo/azienda.

In un contesto sociale che offre svariati alibi a chi sceglie il disimpegno, come scout avremmo la possibilità di condividere un’opportunità più unica che rara: poter osservare, giudicare e trasformare il proprio territorio per renderlo concretamente un posto migliore. È l’orizzonte indicato dal Patto Associativo: «Crescere con i ragazzi come persone significative e felici (…) liberi, nel pensare e nell’agire, da quei modelli culturali, economici e politici che condizionano ed opprimono (…) inventando nuove risposte alla vita con l’inesauribile fantasia dell’amore». Questa proposta non perde originalità e, anzi, più aumenta il senso di smarrimento e solitudine generato dalla precarietà in cui siamo immersi, più lo scautismo risponde alle necessità psicofisiche e spirituali di appartenenza a comunità sane, solide e inclusive, attente alla cura del singolo e del territorio.

Onestamente, è questa la sfida che proponiamo a chi intende entrare in comunità capi?

O piuttosto puntiamo tutto sul «cosa» dovrebbe fare chi entra, ammorbandoci con interminabili riunioni logistiche sul «come, quando, chi» soprassedendo sul quesito centrale: «Perché?».

Molti capi ritengono «inutile perdere tempo» sul «chi ce lo fa fare», e così anche gli scout diventano un contesto basato su logiche utilitaristiche dove si ragiona in termini di «efficienza della prestazione».

Lo riconosce anche Giorgio: «Si trattasse di godere della possibilità di trasformare un territorio e fare educazione crescendo insieme ai ragazzi che accompagno, sicuramente un modo di starci lo avrei trovato. (…) Ma nel mio gruppo il servizio è vissuto come un atto eroico per mandare avanti la baracca».

E visto che «chi vuole qualcosa trova una strada, gli altri una scusa», questo genere di comunità capi diventano contesti dai quali «gli uomini e le donne della partenza» si tengono lontani con una scusa, che noi accettiamo di buon grado, perché l’alternativa sarebbe metterci in discussione.

Un buon esercizio, per chi si trovasse nella infelice situazione del gruppo di Giorgio, può essere quello di confrontarsi schiettamente paragonando quanto praticato nel gruppo con quanto condiviso sul Patto Associativo e teoricamente sottoscritto al momento dell’ingresso in comunità.

Lo scarto tra quello che siamo (e facciamo) e quello che dovremmo essere (e fare) dovrebbe rappresentare uno stimolo per migliorarci e crescere, e questo confronto dovrebbe aiutarci ad «alleggerire» i nostri progetti educativi, spesso appesantiti da consuetudini e formalità in molti casi prive di fondamenti autentici.

Mutuando quanto scriveva Carlo Maria Martini a proposito della Chiesa: «Si vede così tanta cenere, sopra la brace, che spesso ci assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma? Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace. Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? (…) Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque».

Questi valori, che come la brace stanno sotto la cenere del «si è sempre fatto così» che a volte opprime i nostri progetti educativi, non si possono «raccontare» o «studiare», si possono riaccendere solo attraverso esperienze concrete, senza paura di sperimentare, quando necessario, per declinare al meglio i valori del Patto Associativo sulla base dei ragazzi (e del territorio) che ci troviamo di fronte.

Gratuità, partecipazione, autoeducazione, spiritualità, sequela evangelica, nonviolenza, amore, fratellanza, giustizia, accoglienza, servizio, antifascismo, ecumenismo, liberazione, solidarietà, dialogo, cittadinanza attiva.

La «modesta proposta» è quella di ripartire alle ragioni profonde del nostro impegno, formando comunità che siano davvero realtà di impegno credibili e quindi inevitabilmente contagiose, capaci di coinvolgere anche persone «fuori dal giro», congruenti con i nostri valori di fondo e attratte dalla concretezza e percorribilità del nostro sogno.

Diversamente, finché saremo solo un’alternativa alla ludoteca (dove per altro gli «animatori» si devono vestire in maniera bizzarra e non sono pagati) difficilmente usciremo dalla «crisi di vocazioni» di capi.

Una buona idea, per iniziare, potrebbe essere quella di ripartire dai valori del Patto Associativo che sono più caratterizzanti, stimolanti e controcorrente sul territorio in cui operiamo. La dimensione internazionale e interculturale dove c’è razzismo e guerra tra poveri, solidarietà e giustizia dove regnano logiche criminali e soprusi, nonviolenza dove dilagano i conflitti.

Forse se questo ritorno ai valori fondanti del nostro impegno riuscisse, faremmo anche un regalo ai formatori, riducendo il numero di quel tipo di capi con «ansie da prestazione» che affollano i campi di formazione alla ossessiva ricerca di «ricettine del come fare», che saprebbero inventare autonomamente, se solo la comunità capi di provenienza avesse (ri)messo al centro i «perché».

 

Twitter @pietrobar

 

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