LA QUARTA RIVOLUZIONE

di Vincenzo Pipitone

Onlife, media education, animazione sociale. Cosa sono e cosa comportano in educazione

 

“Come le mangrovie abitano le acque salmastre, noi abitiamo una società dove analogico e digitale si fondono. Anche la nostra realtà è ibrida come lo è l’estuario di un fiume, dove mare e acqua dolce si mescolano. Per imparare ad adattarsi e sopravvivere serve una scialuppa di salvataggio, che si chiama senso critico” Luciano Floridi

Digitalizzazione, media education, media literacy, onlife, digital storytelling, video making, animazione sociale, quarta rivoluzione. Che mal di testa ragazzi! Che fatica! Quanto si complica il discorso sull’educazione? Certamente il tema interroga il nostro contesto educativo e le nuove competenze. Il digitale ha cambiato il modo con cui i ragazzi fanno esperienza ed apprendono. Ne abbiamo parlato in redazione con la dottoressa Eleonora Mazzotti.

Professoressa, iniziamo da qui. Come educhiamo al pensiero critico nell’era della quarta rivoluzione?

«Per imparare ad adattarsi e sopravvivere serve una scialuppa di salvataggio: il senso critico. Non è qualcosa di innato nei ragazzi, solo perché sono giovani o perché nati nell’era digitale. Qui sorge la questione dei nativi digitali, esistono o non esistono? Lo stesso Marc Prensky (innovatore nel campo dell’educazione e dell’apprendimento), colui che ha coniato e divulgato il termine, alcuni anni dopo mette in dubbio il concetto affermando, al contempo, che secondo lui esistono tre categorie. Gli “stupidi digitali” coloro che da sprovveduti non hanno la capacità di pensare alle conseguenze, incapaci, per esempio, di distinguere le fake news dalle notizie vere. Poi ci sono gli “abili digitali”, coloro che sanno utilizzare gli strumenti di comunicazione, senza una competenza specifica. Infine i “saggi digitali”, coloro che hanno la capacità di riconoscere il vero dal falso, il buono da cosa non lo è. Ecco, il vostro ruolo è quello di educare al senso critico, ossia tendere a far diventare bambini e ragazzi “abili digitali”, equipaggiati, capaci e competenti».

Questa scialuppa, questa saggezza, dove la sviluppiamo? Fuori dal digitale o dentro?

«Sia dentro, sia fuori. Faccio un esempio. La sindrome dell’hikikomori, cioè di coloro – spesso ragazzi – che hanno scelto di vivere estremamente isolati, viene curata attraverso l’utilizzo del digitale, unica modalità per poter agganciare chi ne soffre. Io devo educare ai media e con i media, quindi la saggezza di cui parliamo va educata fuori e dentro il digitale. La scialuppa la costruisco analizzando la realtà, l’ambiente educativo, quindi anche il mondo del digitale. Altro esempio è quello di creare comunità anche con il digitale, ri-concettualizzando lo strumento, cioè credere che il digitale ci possa servire per riconnettere il tessuto sociale. Ripartire dal digitale per rincontrarci di presenza».

Come e quanto è cambiato il tema della comunicazione?

«Anni fa i media di massa erano solo strumenti utili per superare le distanze. Il telefono, per esempio, o la TV. Pensiamo ad Alberto Manzi e alla trasmissione Non è mai troppo tardi, con cui insegnava a scrivere e a leggere, superando la barriera della distanza. Allora, i media erano solo uno strumento. C’è un passaggio successivo, dovuto alla comunicazione digitale, con cui lo strumento diventa un ambiente; adesso si parla di tecnologia di gruppo: pensiamo al forum (o a google drive) come spazio da “abitare”, dove vivere da cittadini digitali. Nella terza età dei social, siamo diventati “onlife”, cioè abbiamo creato un ambiente pervasivo che ci connette sempre; e sottolineo sempre. Pensiamo al cyber bullismo che perseguita la vittima e lo fa sempre, mentre prima i bullizzati erano vittime solo quando incontravano fisicamente i propri carnefici».

Quali sono le caratteristiche della comunicazione oggi?

«Al tempo della comunicazione digitale 2.0, la prima caratteristica è la portabilità: la notizia ci sta in tasca, è sempre con noi. L’altra è l’autorialità. Non siamo più fruitori di notizie che scegliamo di ascoltare o guardare; siamo diventati spettautori, vale a dire sia fruitori, sia autori. Tutti siamo creatori di contenuti, quindi la sfida è quella di educare alla responsabilità, al senso critico; non solo educare a saper scegliere e distinguere il vero da ciò che non lo è, ma anche insegnare a comunicare in modo creativo e a essere produttori di contenuti. Essere dunque originali, metterci del proprio, contro il pericolo della ripetitività. Altra caratteristiche è la socialità. Si vive la comunicazione interpersonale con tutto e con tutti. Anche qui la parola chiave è la responsabilità: educare a vivere in modo responsabile i rapporti sociali che si creano nell’ambiente digitale».

È possibile, e come si cura, una “buona comunicazione” fra generazioni digitali e non?

«Sì, è possibile. Richiede (e permette) un avvicinamento reciproco e prova a ridurre il divario digitale che si viene a creare non solo in termini di “mancanza dello strumento”, ma anche e soprattutto per condividere culture e linguaggi differenti. Per poter avvicinare l’anziano al digitale è possibile insistere su due importanti funzioni del digitale: la funzione relazionale e la funzione espressiva. Con quest’ultima si parte dai suoi interessi, passioni per aggiungere ricordi e utilizzare il digitale in modo creativo, con la prima invece l’anziano “scopre” che può mantenere una relazione con i propri cari. Sarebbe bello poter unire le due funzioni in un gruppo WhatsApp di famiglia in cui si instaura una buona comunicazione mediata e gestita (magari dal più giovane!)».

Un “Ti voglio bene” arriva al destinatario allo stesso modo via WhatsApp o vis à vis?

«Difficile rispondere a questa domanda, ci sarebbero tanti discorsi interessanti da fare. Da una parte c’è da considerare che la comunicazione digitale elimina tutta quella sfera di linguaggio del corpo, l’espressione facciale e l’intonazione vocale che trasmettono l’affetto e caricano la comunicazione di forza evocativa. Scrivere in chat in un qualche modo è più semplice, meno “impegnativo”: inventare alibi, tanto quanto comunicare affetto è più facile perché l’altro non lo vediamo. Dall’altra c’è da considerare che la comunicazione è autentica solo se l’intenzione del parlante lo è, non dipende (solo) dal mezzo con cui è comunicata. Il significato del testo “ti voglio bene” non cambia in base al canale di comunicazione utilizzato, sia che si tratti di una conversazione vis-à-vis che attraverso WhatsApp. Quello che cambia è sicuramente la modalità di consegna del messaggio che può influire sulla percezione dell’emozione e dell’intensità con cui il messaggio viene trasmesso. Siamo davvero certi di voler vedere la reazione dell’altro nel momento in cui lo comunichiamo? 😊»

Eleonora Mazzotti è Ph.D. Student in “Medium e medialità” all’Università Telematica E-campus. Svolge la sua attività di ricerca e formazione presso il centro di ricerca CREMIT, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; si occupa in particolare dei temi legati alla Media Education sia in scuola che in contesti non formali e del rapporto tra digitale e sviluppo di comunità in ambito sociale e pastorale.

[Foto Roma 100]

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