LA PEDAGOGIA DELL’ESEMPIO

di Angelo Giordano

Il Metodo Puglisi presentato da chi l’ha sperimentato in prima persona: «Non mi ha mai parlato di mafia, ma mi ha educato a essere cittadina»

Ogni vittima della violenza mafiosa, ognuna a suo modo, è testimone di Pace. Il beato don Pino Puglisi fu assassinato dalla mafia a Palermo il giorno del suo 56esimo compleanno, il 15 settembre 1993. Da tre anni era parroco al quartiere Brancaccio, dove affrontava le problematiche sociali con uno stile – potremmo dire noi – di Giustizia, pace e non violenza. In occasione del trentennale delle stragi di mafia, lo scorso luglio a Palermo, abbiamo incontrato Rosaria Cascio, una delle allieve di don Puglisi, che visse in prima persona quegli eventi e oggi è impegnata nel diffonderne la memoria e il metodo educativo.

Rosaria Cascio, in cosa consiste il Metodo Puglisi e quali sono gli elementi portanti?

«Per capire il metodo Puglisi si deve partire dalla sua morte e dal perché è stato assassinato dalla mafia. Puglisi ha costruito un sistema antitetico a quello mafioso e dava fastidio alla mafia in quanto mediatore, nel quartiere Brancaccio, di un processo di incarnazione del Vangelo nel territorio. Ed è questo che deve interessarci. L’etimologia della parola “metodo” è “strada”, attraverso cui si va oltre. Io ho vissuto in prima persona il metodo Puglisi perché, oltre a essere il mio insegnante di religione, ho fatto parte di uno dei gruppi di giovani da lui seguito. Puglisi non ha improvvisato nulla, il suo metodo non consisteva nel togliere i bambini dalla strada come molti dicono. Alla base del metodo di Puglisi c’è un lungo studio teorico e scientifico il cui fulcro era il Vangelo. Tutto inizia con l’ascolto, l’empatia e una “competente spontaneità”, poi il Metodo si può sintetizzare come la Pedagogia dell’esempio».

Qual è il ruolo dell’educatore nel Metodo Puglisi?

«Puglisi è stato un animatore e un educatore. Animatore nel senso che tirava fuori l’anima. L’educatore, secondo Puglisi, invece conduce verso mete diverse. Puglisi parlava poco e agiva tanto. È inutile parlare ai giovani di valori se non li si testimonia in prima persona. Perché è solo così che i giovani riconoscono che le parole corrispondono ai fatti. Puglisi diceva “una vita è valida se è donata”: gli educatori per essere efficaci devono essere testimoni e dare l’esempio. Quando Puglisi fu assassinato le sue parole ebbero un impatto fortissimo su chi lo conosceva: “Lui la sua vita l’ha donata, quindi è stata veramente valida e quello che ha testimoniato è vero”. Paradossalmente, quello che Puglisi ha fatto da morto è stato più efficace delle sue parole da vivo, in quanto ha reso vero e autentico tutto quello per cui ha vissuto. Il ruolo dell’educatore è quello del testimone. E Puglisi lo è stato: era povero, quindi poteva parlare ai poveri, era umile, quindi un valido compagno di strada per chi era in difficoltà. Quindi, un educatore è una persona coerente che prima fa e poi parla».

L’attualità del metodo Puglisi: quali sono le intuizioni più che mai valide oggi?

«I ragazzi non ne possono più di adulti che dicono loro cosa devono fare, perché gli adulti che hanno distrutto il mondo non sono assolutamente credibili. Ma sono disposti a seguire chi mette in pratica le cose che dice. Ecco, l’attualità del Metodo Puglisi è la capacità di superare lo iato presente tra la teoria e la pratica. La teoria rende tutti parolai, la pratica rende tutti credibili e validi testimoni. Ed è importante che l’educatore sia credibile nel dire “Ce la possiamo fare”. Non: “Ce la possono fare” E nemmeno: “Ce la potete fare”. Al Brancaccio Puglisi non è stato il prete rivoluzionario urlante, il prete antimafia, ma quello che leggeva i bisogni della sua comunità. Collaborò molto con gli assistenti sociali, il fulcro della sua azione consistette nel dimostrare ai piccoli che i beni reali erano altri: giocare a pallone, essere bambini in modo autentico. Riuscì a dimostrare alla comunità, con i fatti, che era possibile incamminarsi verso un altro modo di vivere che non fosse permeato di violenza».

C’è un ricordo personale di don Puglisi che vuole condividere con noi educatori scout?

«Una delle esperienze più belle era confessarsi da lui. Andavi lì, parlavi con lui e PPP, che sta per Padre Pino Puglisi, mentre ti confessavi se ne stava sempre in silenzio. Ma assumeva dentro di sé tutte le emozioni che tu gli stavi trasmettendo. Non ti dava mai la ricetta per risolvere quel problema. Ti regalava un libro e ti faceva capire che non spettava a lui ma a te trovare la soluzione. Ma in questa circostanza ti diceva anche: “Io comunque ci sono: decidi tu ma arriviamoci insieme”. Lui era accanto a te tutte le volte che ne avevi bisogno senza diventare dipendente da una sua opinione e diventavi autonomo, quindi adulto, quindi cittadino. Non mi ha mai parlato di mafia, ma mi ha educato a essere cittadina».

Per saperne di più:

La vita e il Metodo di don Puglisi 
Lo speciale don Pino Puglisi di SEMI, il podcast di Pe, con Il ricordo del suo amico Pippo De Pasquale, che ne ha raccolto l’ultimo respiro.

«A che serve, se sbagliamo direzione?

Venti, sessanta, cento anni, la vita…

Ciò che importa è incontrare Cristo, vivere come lui,

annunciare il suo amore che salva.

Portare speranza e non dimenticare che tutti,

ciascuno al proprio posto,

anche pagando di persona,

siamo i costruttori di un mondo nuovo»

Don Pino Puglisi

[Foto di Valeria Leone]

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