Un’intervista al teologo Mario Vergottini per capire meglio il Concilio Vaticano II a cinquant’anni di distanza
Sono trascorsi quasi 50 anni dall’apertura del concilio Vaticano II. Dall’album della memoria quali fotogrammi si possono estrarre in ordine al suo inaspettato inizio?
L’11 ottobre 1962, dopo una preparazione durata poco più di tre anni, ebbe inizio il concilio Vaticano II, annunciato all’improvviso da Giovanni XXIII a soli tre mesi dalla sua elezione al pontificato, fra la sorpresa generale e, soprattutto, a insaputa della Curia romana. Di quel giorno straordinario restano impresse tre immagini. Anzitutto, la processione solenne di oltre duemila padri conciliari che, scendendo la scala del Palazzo Apostolico, entrarono in corteo nella basilica di san Pietro, per prendere posto negli scranni delle tribune erette nella navata centrale. I vescovi di tutto il mondo erano convocati a Roma in Concilio, non per condannare errori dottrinali o sistemi ideologici, ma per avviare un autentico dialogo all’interno del corpo ecclesiale con lo scopo di riscoprire l’attualità e la vitalità dell’annuncio cristiano nello scenario culturale presente. In secondo luogo, quello pronunciato da papa Roncalli non fu affatto – come era nelle previsioni – un discorso di circostanza e di convenevoli. Nell’allocuzione Gaudet mater ecclesia, il papa illustrò la sua “filosofia” del concilio: la necessità per la Chiesa di un “balzo innanzi” nella penetrazione della verità cristiana, onde offrire al mondo circostante una riproposta del vangelo di Gesù, nel quadro di un “aggiornamento” delle forme e del linguaggio cristiani, in un clima di fiduciosa attesa che sollecitava a diffidare dai “profeti di sventura”, così da riscoprire il carattere prevalentemente “pastorale” del magistero episcopale e, perciò, del concilio stesso. Un ultimo fotogramma è quello del papa che, affacciandosi quella sera alla finestra del suo studio sulla piazza gremita dai pellegrini e illuminata dalle fiaccole, improvvisò il famoso “discorso della luna”. Quell’intervento nel suo alone di immediatezza e semplicità ebbe un impatto straordinario sull’opinione pubblica grazie alla sua diffusione per mezzo della televisione, inaugurando una nuova stagione di comunicazione e di presenza mediatica del messaggio ecclesiale nell’era della globalizzazione.
Veniamo ora al momento della chiusura del concilio, avvenuta l’8 dicembre del 1965.
Nella solennità dell’Immacolata, il movimento dei padri conciliari fu inverso rispetto all’ingresso di tre anni prima, “dalla Chiesa alla piazza” e ciò acquistò un valore simbolico. I padri conciliari, radunati nella basilica di san Pietro in attesa dell’arrivo di Paolo VI, fuoriuscirono dal portale principale per prendere posto ai lati dell’altare per la celebrazione della santa messa. Nel messaggio pronunciato dopo il Vangelo, papa Montini intese esprimere l’apertura e la prossimità della Chiesa all’umanità tutta, rivolgendo un saluto di amicizia, stima ed affetto a credenti e a non credenti. Quasi a rinforzo di questa disposizione della Chiesa a entrare in dialogo con il mondo, al termine della celebrazione venne data lettura dei messaggi del Concilio ai governanti, agli scienziati, agli artisti, alle donne, ai lavoratori, ai poveri, agli ammalati, ai giovani. Al termine dell’evento straordinario del Concilio spettava alle Chiese locali e ai singoli credenti, nella ordinarietà del quotidiano, testimoniare il nuovo volto della Chiesa cattolica, fedele al Vangelo e appassionata nella costruzione della città degli uomini.
Quali frutti di quella stagione sono oggi patrimonio della comunità credente?
La risposta non può essere liquidata in poche battute, in quanto il discorso chiederebbe di intavolare un complesso raffronto fra la stagione preconciliare e l’attuale contesto ecclesiale, passando attraverso le diverse fasi della recezione del Vaticano II. Limitandoci a considerare gli apporti più sostanziosi delle quattro costituzioni conciliari, si possono richiamare: a) la riscoperta della “actuosa participatio” nella liturgia, che restituisce la circolarità fra mistero, celebrazione e vita (Sacrosanctum concilium); b) il primato della Parola di Dio, attestata nella Scrittura, la quale diviene, unitamente ai sacramenti, alimento quotidiano per la crescita della coscienza credente (Dei Verbum); c) la nuova consapevolezza della Chiesa come popolo di Dio, nella valorizzazione dei ministeri, dei carismi e della comune dignità di tutti i credenti (Lumen gentium); d) la coscienza della Chiesa di disporsi in un atteggiamento di dialogo franco, costruttivo con la società, disposta a sostenere ogni iniziativa tesa a promuovere concordia, sviluppo e solidarietà in vista della promozione del bene pubblico (Gaudium et spes). Ma questo elenco inevitabilmente è troppo riduttivo, perché lascia fuori una serie di frutti che il Vaticano II ha generato: basti pensare alla svolta nel campo dell’ecumenismo e del dialogo con le religioni, alla valorizzazione dei laici, al rilancio dell’attività missionaria e così via.
Quali, invece, le eredità disattese del Concilio, i percorsi avviati e tuttora da compiere?
A cinquant’anni dall’inizio del Vaticano II, la svolta da esso reclamata sul piano della coscienza credente ed ecclesiale non è un dato pacificamente acquisito sul piano del sentire e dell’agire credente. Sia chiaro, il “nuovo corso” conciliare relativamente al mistero della Chiesa e all’identità del cristiano – al di là di pretestuose ritrattazioni – conta oggi su un consenso pressoché unanime a livello di coscienza diffusa. Eppure, perché un tale guadagno teorico possa conoscere una fattiva ricaduta nelle pratiche ecclesiastiche, e soprattutto nella coscienza credente, devono essere superati ancora non pochi ostacoli ed essere vinte non poche resistenze. La cosa non deve stupire più di tanto, in quanto costituisce una puntuale conferma della regola più generale per cui nell’esperienza biografica dei singoli individui e degli stessi gruppi sociali si verifica uno scarto fra l’acquisizione teorica di un’idea e la sua assimilazione simbolica. Il passaggio dal sapére (“avere notizia”) al sápere (“divenire consapevoli”) non avviene automaticamente; implica invece un laborioso processo di interiorizzazione, che chiama in causa la decisione responsabile del soggetto. In altre parole, la lezione del Vaticano II è stata recepita sul piano riflesso, ma ancora non è stata appieno assimilata in profondità, fino a entrare pervasivamente nelle strutture, nelle abitudini, nel linguaggio della Chiesa e nella coscienza dei singoli fedeli. A ben vedere, però, se ci si confronta con la storia bimillenaria della comunità cristiana, cinquant’anni sono un periodo tutto sommato ancora breve per sostenere che l’onda lunga dell’ultimo concilio abbia concluso la sua spinta propulsiva.
Marco Vergottini
Teologo e coordinatore del sito www.vivailconcilio.it
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