Come è cambiata la società

Il cambiamento – ciò che ci appare diverso dal passato – non è che l’aspetto temporaneo di un processo continuo di mutamento, talora più accelerato talora più lento. Eppure ci troviamo a riflettere su cosa ci pare diverso da prima, come se d’un tratto ci accorgessimo che le nostre conoscenze più consolidate, le nostre abitudini a inquadrare la realtà, i nostri pre-giudizi non bastassero più a comprendere ciò che ci sta di fronte. Spesso poi ci mettiamo alla ricerca di nuove chiavi di lettura che ci aiutino a “rimettere a posto le cose” (almeno nella nostra mente) per ridurre l’ansia dell’incertezza. Cosa, nel recente passato, ha generato questa incertezza? È un pensiero che serve per intravedere, forse, le piste che ci possono orientare a comprendere il presente e pre-comprendere il futuro che ci attende.

Il novecento, secolo della modernità, figlio della rivoluzione industriale dell’ “occidente” è contraddistinto (come direbbe Zygmunt Bauman) da un potente processo di strutturazione sociale. Le società maggiormente investite dall’industrializzazione e dalla sua promessa di benessere hanno subito una sorta di forzata regolazione della vita sociale, accompagnata dall’affermarsi degli Stati nazionali. Le parole d’ordine, per così dire, della modernità progredita sono state “razionalizzazione” e “regolazione”. L’uomo moderno, l’illuminista dell’occidente, non voleva lasciare più nulla al caso (alla tradizione, alla superstizione, all’ignoranza) ma controllare la realtà per dominarla a proprio vantaggio. La promessa che giustificava tanto impegno e tanto sforzo di trasformazione della vita quotidiana di intere popolazioni, era il “progresso”, legato al benessere, l’accesso potenzialmente illimitato a beni da consumare per la soddisfazione individuale di ciascuno (o, più esattamente, di coloro che erano partecipi di tale progresso).

Nell’arco di un cinquantennio, però, questi elementi, sia di cornice che di contenuto, sembrano essersi sgretolati. Cadono le ideologie, cadono i muri tra gli Stati, cadono le certezze etiche, si liquefa la società stessa (Bauman). Il sistema economico, produttivo, mercantile e finanziario ha valicato i confini nazionali muovendo le sue transazioni di merce, di denaro e di forza lavoro (i migranti) a livello planetario. L’offerta di generi di consumo, nella corsa competitiva delle imprese, ha differenziato i beni offerti fino a produrre beni simbolici e immateriali, inducendo bisogni e comportamenti sempre più vari. Le precedenti parole d’ordine “regolazione” e “razionalizzazione” sono state in breve soppiantate da altri due potenti slogan: “flessibilità” e “concorrenza”.

Così l’enfasi culturale ed etica che pare ora dominante è all’insegna dell’individualizzazione, intesa come centralità del singolo individuo, sempre meno stretto da legami (normativi, civici, comunitari, affettivi, identitari …) e sempre più orientato a giocare una partita aperta nell’immenso mare delle opportunità. L’idea di bene “pubblico” pare farsi soppiantare dall’idea di bene “privato”. Un io però sempre più “io molteplice” provocato al continuo cambiamento e impegnato a tenere insieme i pezzi di sè. L’uomo individualizzato è un uomo tendenzialmente senza società, atomo itinerante nei diversi contesti sociali, responsabile solo di sé, ricco di relazioni ma povero di legami, forse un buon consumatore privato e, se gli va bene, un buon investitore delle sue risorse ma (come ben descrive l’economista Stefano Bertolini) sempre meno felice.

E così – fuori dall’enfasi economicista – si scoprono la “voglia di comunità” (cito ancora Bauman) delle persone sempre più vulnerabili nella loro crescente solitudine, la necessità di reti solidali e protettive, la ricerca di riferimenti di identità più forti. Si torna a cogliere il valore della “fiducia”, intesa come relazione su cui si può far conto al di fuori di uno scambio di vantaggi. Anche la tensione a una fede, come ricerca di un riferimento forte, che supera e trascende la vita del singolo, urge nell’occidente secolarizzato fino a manifestarsi in movimenti (o atteggiamenti) integralisti.

Se i figli del ’900 si sentivano chiamati da: Patria, Chiesa, Fabbrica e Famiglia; i figli nel nostro 2000 hanno in primo luogo una relativa assenza di forti chiamate esistenziali, mentre restano frastornati dalle sirene dei consumi. Né, d’altronde, è immaginabile un ritorno al passato. In molte occasioni la necessità di essere chiamati e chiamare, dà vita alla fibrillazione comunicativa resa possibile dalle e-tecnologie  (sms, e-mail, social network …) che consentono di surrogare virtualmente identità, amicizia, condivisione.

La sfida culturale, educativa e sociale è rendere le chiamate reali. Se non sono più le istituzioni che orientano le masse, sono ora le persone concrete che scelgono di intrecciare relazioni, che scelgono di “col-legarsi” liberamente  e di saldare vincoli.

E’ disponibile l’articolo in verisone estesa.

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