Il ricordo più vivo che ho del mio CFA è legato al mio capo campo, un architetto alto 2 metri per 1 quintale che di ritorno da un deserto che avevo sofferto come pochi altri, mi abbracciò con una forza che non ho mai dimenticato. Nella sessione successiva ci spiegò che l’abbraccio era il primo passo della comprensione, e che solo dopo aver abbracciato si poteva accogliere, accettare e poi perdonare. E che dentro questo percorso c’era molto di quello che c’era da sapere della sapienza umana.
Ne parlo con il prof. Pellai per scandagliare il legame tra fragilità e senso del limite nelle considerazioni di genere, interpellato dalla cronaca, ma non solo. Ricardo Peter nel suo “Onora il tuo limite” (Ed. Cittadella, 2004) parlava della perfezione come problema soprattutto maschile e lo faceva all’interno di una riflessione psicologica e antropologica che voleva “curare” dal disturbo del perfezionismo.
Gli uomini difficilmente abbracciano, perché?
I maschi vivono con estrema fatica lo stare in una relazione che fa bene a loro e in cui possono imparare a fare bene all’altro. La maggior parte di loro, anche se gli equilibri stanno evidentemente cambiando, nel momento in cui deve costruire relazioni orientate all’intimità e che si appoggiano gioco forza su codici affettivi ed emotivi, scopre una sorta analfabetismo affettivo su cui nessuno si è mai premurato di lavorare, per lo meno negli ultimi secoli.
Ancora oggi, in generale, ai maschi viene proposto di essere originali ed energici, protagonisti dell’azione piuttosto che nella relazione. Han vissuto l’evoluzione specializzandosi soprattutto nel fuori, nell’esterno, in una zona lontana dall’affettività e dall’intimità, orientata alla costruzione di un ruolo sociale. Nel corso del secondo Dopoguerra questo ruolo è stato soprattutto il lavoro, perché finalmente ce n’era in abbondanza e non di rado questa ricchezza ha permesso veri e propri casi emblematici, narrati attraverso il mito dell’uomo fatto da solo (il self made man) così incardinato nella cultura occidentale soprattutto perché orientato verso la perfezione, che è la madre dei nostri miti.
Fateci caso, anche nel 2018 l’uomo si presenta per lo più con il lavoro che fa.
Però hai detto che gli equilibri stanno cambiando…
Si, siamo finalmente di fronte ad un passaggio antropologicamente determinante.
Negli anni ‘70 la prima rivoluzione sessuale promossa dalle donne e subìta dagli uomini ha chiesto al maschio di farsi carico delle stesse mansioni e funzioni delle donne all’interno del nucleo famigliare. Era una richiesta centrata sul fare.
Questa prima rivoluzione ha avuto due principali conseguenze:
1) nel momento in cui i maschi hanno cominciato a fare quello che le donne chiedevano loro, questo ha generato in moltissimi di loro un’evoluzione che li spingeva verso un voler fare e, in questi anni, ad un voler essere.
2) si è riequilibrata anche la dipendenza economica del femminile rispetto al maschile perché il dover fare domestico chiesto all’uomo si è accompagnato ad un voler fare della donna verso l’esterno.
E in questo germe di nuova identità maschile potrebbe trovare più spazio l’orgoglio della propria fragilità?
Pensa soltanto all’impatto straordinario che l’approccio genitoriale del nord Europa sta avendo sulla nostra società mediterranea, con uomini che cominciano a desiderare di poter presidiare la dimensione della paternità, addirittura cambiando il lavoro se necessario. Non c’è luogo della nostra vita che sia più connesso con i codici emotivi e relazionali della paternità e della maternità.
I figli stanno salvando i maschi?
Diciamo che la vera trasformazione di chi ci sta provando, perché comunque puoi anche resistergli efficacemente, va detto, si è incubata nella relazione genitoriale più che in quella di coppia. Hai assistito al parto dei tuoi figli?
Si, il modo in cui sono usciti, muovendosi secondo un identico schema imparato chissà dove, me lo porterò con me per sempre. Per questo lo suggerisco a tutti.
E fai bene. È scientificamente provato che nel momento in cui l’uomo rimane sulla e nella scena genitoriale e quindi svolge funzioni d’accudimento, il suo cervello automaticamente attiva un sistema di gratificazione ormonale che lo travolge, aumentando la produzione di ossitocina e prolattina e diminuendo quella di testosterone.
Il cervello del maschio adulto che assiste al parto dei suoi figli e che nelle settimane successive sta con loro, li accudisce e li guarda negli occhi si trasforma nel cervello di un papà.
E chi non è padre? Perché non può o perché non vuole?
Per loro ci sono le donne.
Le donne salvano i maschi che non sono stati salvati dai figli…
Là dove il femminile accoglie, il maschile risorge. Chi non è padre questo passaggio lo deve volere, sforzarsi di percorrere sentieri simili costruendoli con la lettura e la riflessione. Va detto che il cinema e la cultura di massa hanno contribuito con la loro narrazione a sdoganare questi tentativi di riconoscere le proprie emozioni, dar loro un nome e imparare a gestirle.
Evidentemente poi le donne sono anche madri e per questo è importantissimo tutto il lavoro di educazione emotiva nell’età evolutiva perché insegna ai bimbi e alle bimbe queste nozioni a prescindere dalla consapevolezza di genere, che verrà dopo.
Alla fine del 2017 le donne del movimento #metoo, quelle che negli ultimi mesi hanno denunciato le molestie sessuali subite nel corso delle proprie vite, sono state elette “persona dell’anno 2017” dal Times. Le donne salvano i maschi anche denunciando la loro violenza?
Anche se somiglia ad un paradosso sono convinto che il femminile stimola questo percorso anche con la denuncia, ricomunicando al maschile che non è disponibile a tollerare uno squilibro relazionale che oggi si basa ormai solo sulla mancanza di pari opportunità. Che sono l’origine dell’infezione e che i maschi dovrebbero preoccuparsi di colmare il prima possibile, nel campo delle differenze di genere, come nel campo di quelle economiche e sociali, anche perché è evidente che stiamo parlando di un potere dell’impotente…
Eccolo, il nucleo vivo dell’articolo. Ci arriva dopo quasi un’ora di chiacchierata, e lo fa senza sottolinearlo, ma è il passaggio determinante dell’intervista e mi travolge. Il potere dell’impotente.
Il potere dell’impotente?
Ma sì, è evidente a chiunque che chi ha un sano potere affettivo e relazionale non ha bisogno di usare il proprio status professionale per entrare in intimità con una persona, chiunque essa sia. Emerge un senso di inadeguatezza tale nei confronti del femminile per cui l’uomo che sente di non riuscire a stare alla pari, soddisfacenti senza prevaricazione, con la donna nella relazione, allora sfrutta il potere cercando di farla diventare un oggetto che obbedisce ai suoi desideri.
Bestie impaurite.
Si, persone che lasciano emergere la parte più bestiale del loro antropos agganciandovi la propria stessa sopravvivenza sociale e non solo. Nell’uomo la sessualità è un dispositivo relazionale, non puramente biologico che si accende e si spegne con l’orologio ormonale. Ma questa parte è ancora scritta nel nostro cervello, perché da lì veniamo. Per questo i ragionamenti sulla violenza di genere devono partire dal maschile.
Stiamo parlando di maschile e femminile o di maschi e di femmine? No perché anche nello scautismo questo tipo di educazione affettiva l’han sempre fatta soprattutto le donne sulle donne.
Stiamo parlando di maschile e di femminile strutturato fisiologicamente, lo stesso cervello delle donne ha molti più connessioni e reti neuronali che connettono la parte cognitiva con quella emotiva. Certo che il maschio può imparare, essere educato, e non solo sedotto, dalle competenze femminili.
Purtroppo oggi il maschile sta ormai scomparendo dal mondo educativo, così come da quello psicosociale. In parte anche per colpa della progressiva depauperizzazione della cooperazione sociale che in questo paese sta creando danni enormi che nessun politico sembra intendere.
Mi affascina l’idea che si possa e-ducare, estrarre da un uomo il femminile che gli serve.
L’equilibrio relazionale è una conquista, è frutto di un’educazione emotiva che dura una vita intera, pro sociale e di genere che comporta un pensiero educativo, una progettualità e delle attività specifiche e mirate nel mondo di chi sta crescendo. Sono aree educative strategiche che se sono pensate nel mondo dell’adulto possono essere soddisfacenti. Ma se i ragazzi sono lasciati da soli, si aggrapperanno inevitabilmente agli stereotipi del loro tempo, condizionamenti che automaticamente diventano educativi in mancanza di altro.
E che oggi sono solidissimi, anche nell’universo femminile. L’idea che la donna non possa ad esempio avere un ruolo attivo nell’innesco della relazione è radicatissima.
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Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, è ricercatore presso il dipartimento di Scienze Bio-Mediche dell’Università degli Studi di Milano, dove si occupa di prevenzione in età evolutiva. Nel 2004 il Ministero della Salute gli ha conferito la medaglia d’argento al merito della Sanità pubblica. È autore di molti bestseller per genitori, educatori e ragazzi, tra i quali Tutto troppo presto, Girl R-evolution e, a quattro mani con Barbara Tamborini, I papà vengono da Marte, le mamme da Venere e L’età dello tsunami, tutti editi da De Agostini.
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