Più lenti, più profondi, più dolci

di Pietro Barabino

«Finora si è agito all’insegna del motto olimpico citius, altius, fortius (più veloce, più alto, più forte) che, meglio di ogni altra sintesi, rappresenta lo spirito della nostra civiltà, dove l’agonismo e la competizione sono la norma quotidiana. Se non si radica una concezione alternativa, che potremmo sintetizzare, al contrario, in lentius, profundius, suavius (più lento, più profondo, più dolce), e se non si cerca in quella prospettiva il nuovo benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo dall’essere ostinatamente osteggiato, eluso o semplicemente disatteso».

Così Alexander Langer, 25 anni fa, criticava l’affermarsi di una società dei consumi che, intuiva, avrebbe portato in breve tempo allo sfondamento dei limiti di sostenibilità economica e ambientale. «Ovviamente – aggiungeva – la distribuzione sociale dei danni che derivano dalla ricerca di uno sfruttamento infinito di risorse limitate è inversamente proporzionale alla ricchezza. I benestanti esagerano più dei poveri, i quali hanno poco da sprecare, perché mancano dei necessari presupposti economici. Eppure, essi non sono meno influenzati dalla cultura dominante, per cui aspirano spesso a diventare al più presto esattamente come i più ricchi, convinti che la felicità esiga un determinato livello di consumi».

A distanza di anni, la situazione è decisamente peggiorata. La cultura dominante è sempre quella del consumo, gli spot pubblicitari continuano a invitarci a «superare i nostri limiti», grazie all’acquisto di qualche “prodotto” che possa aiutarci nel farlo, dal deodorante alla macchina, passando per le promesse elettorali dei candidati alle elezioni. La globalizzazione ha portato con sé solo una piccola parte dei benefici auspicati dai suoi fautori, insieme ai tanti (troppi) disequilibri, finendo in definitiva per portare vantaggio esclusivamente ad alcune grandi imprese, alimentando per reazione populismi e protezionismi, divisioni sociali, concorrenza basata sullo smantellamento delle tutele del lavoro, guerra tra poveri e crescita esponenziale delle disuguaglianze. Continuiamo a ragionare in termini di sviluppo, e neanche la crisi ci ha convinti a rivedere i nostri livelli di consumo, anzi. Anche nel 2017, l’82% dell’incremento di ricchezza mondiale è finito in tasca di quell’1% della popolazione che possiede quanto il restante 99%. Negli ultimi anni, in molti stanno cercando di individuare correttivi capaci di evitare lo schianto di questo sistema economico, aumenta il numero di analisti e addetti ai lavori, che sostengono apertamente l’approssimarsi della fine del modello di sviluppo che siamo stati abituati a dare per scontato come unico possibile. Allo stesso tempo, sciacalli e speculatori di vario genere preparano salvacondotti per uscirne ancora una volta indenni con i loro patrimoni.

Non è solo una questione sociale e politica, è un tema che tocca tutti personalmente e riguarda i limiti. Come scriveva Gandhi un secolo fa: «Nel mondo c’è quanto basta per le necessità dell’uomo, ma non per la sua avidità». Nel criticare l’imperialismo occidentale, sottolineava come «i nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, siano perle false, fin tanto che non vengano trasformati in azioni». Tutti vogliono il cambiamento, pochissimi iniziano con il cambiare se stessi: «Come vivere nel miglior modo possibile dalla parte sbagliata del mondo?».

Conosciamo bene alcune mosse, praticabili in un’ottica di “riduzione del danno”. Accogliere con ironia e leggerezza i propri limiti e rispettarli, cogliere la necessità dell’interdipendenza con gli altri, condividere beni e servizi, riscoprire l’arte dell’adattarsi e arrangiarsi, ricercare soddisfazioni non ottenibili con alcun carta di credito e chiavi in mano. Praticare consumo critico, gestire responsabilmente i nostri risparmi, partecipare attivamente sul territorio per far sì che queste iniziative individuali si possano diffondere.

È sempre scouting, cioè osservare (che vivere altrimenti è possibile), dedurre (che si vive meglio, rallentando e rispettando i limiti individuali, sociali e ambientali) e agire (scegliendo di investire in questo senso la nostra vita). Tutto questo non è necessario “immetterlo” nel metodo, è già alla base della nostra proposta educativa e si ritrova nel valore dell’essenzialità, talvolta banalizzata e ridotta a formalità.

Riscoprire l’essenzialità significa imparare a fare i conti con la propria fragilità e con quella di chi ci sta vicino, affrontarle insieme, superarle quando possibile. Riuscire autonomamente a riconoscere i propri limiti, liberarci dall’influenza delle mode e da quella di chi vorrebbe decidere per noi, non solo quali limiti e quali fragilità superare, ma anche con quali prodotti e a che prezzo offrirci le scorciatoie per mantenere i ritmi insostenibili dello stile di vita che vorrebbero imporci (spesso facendo pagare il conto ad altri, lontano dai nostri occhi). È una strada controcorrente, ma non necessariamente in salita, se con questo intendiamo un percorso faticoso o poco invitante. Il percorso scout ci offre continuamente occasioni per comprendere come “ridurre” non significhi sottoporsi a chissà quali sacrifici, ma trovare quell’equilibrio che ci aiuta a riconoscere ciò che realmente ci è necessario per essere felici. Sta a noi cogliere questi momenti e valorizzarli, aiutando i ragazzi a digerire e interiorizzare le esperienze che vivono nel loro percorso associativo.

Chi, a vari livelli, già prova a vivere in sintonia con questi valori, sa che questa proposta non è AFS (Aria Fritta Scout), ma permette di sperimentare quel “già e non ancora”, quell’essere già proiettati in un modo nuovo di intendere le relazioni con gli altri, che rende (senza particolari meriti), capaci di non cedere, anche immersi in un contesto generale dominato da logiche opposte. Trovandoci a maneggiare questa indipendenza, il rischio è piuttosto quello di restare chiusi nella nostra “bolla”. Un po’ per evitare il conflitto con chi la pensa diversamente, un po’ per un atteggiamento elitario, che possiamo inconsapevolmente far pesare nei confronti di chi non condivide o non comprende la nostra proposta. Come ricorda Papa Francesco, dobbiamo sempre tenere presente che questa «visione del valore sociale», contrapposta a quella del «denaro privato», che per noi può essere una proposta così chiara, buona e giusta, «risulta oggi estremamente minoritaria, e non si può pensare di trasmetterla a chi non la vive con discorsi astratti».

La sfida è quella di goderci l’intreccio di scelte personali e collettive, di sinergie e intese, che si crea tra chi condivide e vive le nostre scelte valoriali di fondo, cercando di tradurle in una proposta credibile, accogliente e mai moralista, che non tenti di imporre ai ragazzi ciò che noi riteniamo giusto con “regolamenti” più o meno calati dall’alto, che rischiano solo di attirarci l’odio che, tipicamente, circonda fanatici e fondamentalisti di ogni risma.

In questo ci viene incontro l’approccio integralmente esperienziale del metodo scout, quell’imparare facendo insieme, che dovrebbe accompagnare riunioni, uscite, campi e route.

Tutt’altro che un sacrificio, la nostra proposta di essenzialità può rappresentare un privilegio. È il privilegio di non dipendere troppo da dotazioni materiali e finanziarie, di preferire nella vita tutte le cose che non si possono comprare o vendere, di usare con saggezza la terra. Non si tratta quindi di diffondere un ideale astratto di pauperismo, anche perché la povertà non ha virtù proprie, ma invitare consapevolmente a ridurre il proprio impatto ambientale e sociale per vivere meglio. Si tratta di riscoprire e proporre quella “felicità sostenibile” perseguibile da chiunque, indipendentemente dall’affermazione economica personale. In una società dei consumi nella quale si sono appiattite le coscienze e si percepisce un clima di fondo di impotenza e frustrazione, si tratta di recuperare anche la capacità di sognare e costruire un mondo diverso, praticare il passaggio dalla concezione consumistica di “benessere”, inteso come “bene avere” a quella più ampia del “ben vivere”, molto lontana dai ristretti orizzonti di chi si è rassegnato all’idea che tutto ciò che non si possa comprare e ottenere è come se non esistesse, finendo per perdere qualunque interesse per tutto ciò che vada oltre la soddisfazione di bisogni immediati.

Twitter @pietrobar

[foto di Elisa Prignaca]

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