Il futuro di tutti

di Marco Gallicani

Parigi, Istanbul, Beirut, Kenya, Siria. Per capire cosa succede oggi nel mondo bisognerebbe anzitutto riuscire a guardarlo per bene, questo mondo, e non è facile come può sembrare, prima di tutto per due motivi.

Anzitutto non viviamo più nell’epoca delle polemiche a mezzo stampa: l’istantaneo dei nostri mezzi sociali è spesso troppo veloce, stupido e abbondante perché il dibattito possa essere orientato verso un obiettivo costruttivo, o anche solo guardato con l’oggettività necessaria.

Quindi chi volesse farsi un’opinione lucida di quanto sta accadendo nel mondo contemporaneo dovrebbe anzitutto scremare, togliere, sintetizzare. Anche perché gli avvenimenti non si fermano mai e il “fermati e pensa” bisogna saperlo fare in corsa.

La seconda questione è poi ancor più vicina al nostro “mestiere” di educatori. Perché se la violenza fa ovviamente e sempre molta paura a tutti, il panico fa tanto di più perché lo fa su una dimensione collettiva e improvvisa, priva di riflessione. Negli Stati Uniti muoiono ogni anno 33.000 persone per incidenti con colpi di arma da fuoco. A contarli dal 2001 sono più di 400.000 morti. Il terrorismo domestico ne ha uccisi 54, in 14 anni (http://bit.ly/armidafuoco).

Ma se un’azione viene etichettata (taggata?) come “terroristica” reagiamo con una panico collettivo che nessuna sparatoria riesce a smuovere. Se dopo una sparatoria il dibattito vira quasi subito verso possibili azioni legislative (e qui si spegne, ma è un’altra storia), quando arriva il terrore parliamo subito di guerra. E non succede solo in America, anche da noi i governi reagiscono con vigore se un crimine è definito “terroristico”.

A dire che la rivalità regionale tra Arabia Saudita e Iran, tra sunniti e sciiti non è un avvenimento recente così come non lo è la strumentalizzazione forzata che questa competizione genera. E non si può pensare che sia questa rivalità, o quella tra noi e loro, a generare il terrore esploso a Parigi o a Beirut o in qualsiasi altro teatro del terrore. Quella è una guerra (quasi tutta interna al mondo islamico) e vive dinamiche da soldati. Troppo banale parlare di musulmani, o anche di fondamentalisti.

I “terribili” dei nostri giorni si chiamano soldati del Daesh (o Isis, per i più), che di questo “terrore” hanno fatto la loro principale arma di distruzione mediatica. Ci hanno forzatamente abituato all’idea che vivere la nostra vita porti con sé una indefinita e seppur piccola parte di tragicità. Un dramma che eravamo abituati a vedere in tv e a leggere sui giornali, ma che adesso sentiamo vicino come non mai, perché troppo simili a noi sono le persone e le civiltà colpite negli ultimi mesi.

La questione per noi educatori non è tanto però su cosa vogliano loro, ma su cosa vogliamo noi. Perché se ci accontentiamo di seguire le timeline dei social network allora ci parrà normale dividere il mondo in buoni e cattivi e accomunare a questi ultimi tutti quelli che sono diversi da noi. Incolpando insomma del nostro disagio le persone e non le logiche che lo producono.

Ecco, questo è quanto non possiamo permetterci di lasciar fluire tra le nostre comunità, che frequentano i media sociali come noi.

Ai nostri ragazzi, come a noi, serve immaginare un futuro, non l’isolamento nel presente. Serve autonomia di giudizio, la stessa che noi fatichiamo ad ottenere per le questioni citate sopra, e un percorso di pacificazione, prima di tutto con noi stessi, e poi con gli altri. Ai nostri ragazzi serve una zattera in questo mare in burrasca, non altra acqua che ci faccia affondare.

Serve la capacità di mantenere la calma e fare quanto è in nostro potere per comprendere e depotenziare il conflitto, a partire dal cuore dei nostri costumi, il denaro, che a dispetto dei proverbi, qualche volta puzza.

E serve un contesto dove agire questo cambiamento, serve una vita vera e pratica, quotidiana dove incontrare i diversi parlando del più e del meno, camminando insieme nel silenzio di un giovedì o nell’eccezionalità di una preghiera interreligiosa.

Certo non aiuta la mediocrità della politica contemporanea, la mancanza di leader che sappiano generare comunità e non ghetti, né il nostro generico assopimento che spesso si traduce, per riflesso condizionato, in una scrollata di spalle.

Ma la questione principale secondo me è nel nostro saper essere comunità. Non è la prima volta che al genere umano vien la paura di poter scomparire per colpa delle sue stesse azioni. E’ capitato al picco della “guerra fredda”, quando dalla paura della crisi nucleare nacque (o comunque si sviluppò moltissimo) un movimento trasversale e nato dal basso che chiedeva a gran voce un futuro di pace. Pensare al futuro significa pensare al futuro di tutti, non a quello di chi avrà la fortuna di non capitare dentro il prossimo (speriamo lontanissimo) incidente.

Forse la soluzione potrebbe risiedere proprio nel nostro saper essere “comunità”, in quanto “accomunati” da un obiettivo unico: facciamo pace?

[foto di Matteo Bergamini]

Leggi per intero “Facciamo Pace“, il numero di PE da cui è tratto questo articolo.

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