Fedeli e imperfetti

di Angelo Giordano (@angelorgiordano) e Alessandro Vai

 

Quando chiesi al Capo Reparto «serve una mano in staff?» mi venne risposto sì, ma prima mi sarei dovuto leggere il Patto Associativo. Sarò sincero, di quel primissimo approccio non ho un ricordo particolarmente emozionante: nei primi anni di Comunità Capi leggere il PA non aveva la stessa valenza emotiva della cerimonia della Promessa… Poi, però, è scattato qualcosa. Perché se la Legge è un elenco di cose che gli Scout fanno, il Patto associativo è l’insieme dei valori che ci impegniamo a realizzare nel concreto. Il PA è scritto con il noi, non con l’io della Promessa o la terza persona plurale (quasi un po’ impersonale?) della Legge. Così, a mano a mano che andavo avanti con il Servizio, la rilettura del Patto associativo è diventata una specie di rituale d’inizio anno scout. Prima di ballare il “valzer delle disponibilità” lo rileggevo chiedendomi se ero pronto a danzare, fedele a un ritmo che mi veniva chiesto di conoscere, seguire e interpretare.
Un passo dopo l’altro, la danza ha preso forma. Con il tempo ho capito che il PA è un testo dalle tante facce. Non è la Costituzione dell’Agesci (quella è definita nello Statuto) ma non è nemmeno una specie di adempimento burocratico, un perimetro infuocato che costringe come in un binario unico la strada al Capo Scout. È un documento che richiede di essere “masticato”, un testo in cui i diversi piani di lettura diventano accessibili con il tempo e con l’esperienza. Non è una questione di lessico o sintassi: è di una chiarezza disarmante e, al netto della componente emozionale, le sue parole sono alte e appassionanti. Il fatto è che, come per tutte le danze, occorre che qualcuno te ne presenti ritmi e sonorità. Altrimenti dubito che per alcun capo la semplice lettura del PA potrà mai essere panacea a qualsiasi male. Con il PA fra le mani, non ci si sentirà d’incanto sicuri di fronte ai ragazzi né si moltiplicheranno le ferie per dedicare tempo alla formazione. Eppure, fra le sue pagine si può trovare continua occasione di discernimento.
Le parole non risolvono i problemi, la coerenza ai valori che le parole descrivono, sì. Fra pronunciare la Promessa da ragazzo e essere fedeli al PA da adulto c’è una grande differenza, fatta di scelte quotidiane per restare coerenti. Si può essere fedeli sempre? Per lo meno ci si può provare, ed è quello a cui siamo chiamati. Ma nelle nostre vite sempre in movimento, è previdente immaginare di poter fare dei passi falsi: è in come riusciamo a rileggerci, a rialzarci, a ricominciare che vediamo la nostra fedeltà al PA.
Essere fedeli al PA non è una faccenda di filosofia, né un risultato che possa essere raggiunto in un istante. Non è un brevetto di competenza con il suo bel distintivo colorato da cucire sulla camicia. È qualcosa che va al di là dell’adesione formale, qualcosa che la nostra fragilità umana mette alla prova ogni singolo giorno perché prevede, nella stessa Scelta cristiana, l’inevitabilità della caduta. Se come comunità possiamo chiedere a ciascuno di noi una rigorosa fedeltà ai valori che il Patto descrive, proprio perché la nostra è una comunità cristiana non possiamo usare quei valori come clava verso chi non manifesta questa fedeltà. A cominciare da noi stessi. Quante volte ho tradito il PA negli ultimi anni? Quante volte mi sono allontanato dal mio essere scout, cristiano, cittadino? E se dopo anni faticosi – quando qualsiasi sforzo sembra sterile – capitasse di trovare nel PA solo il vuoto della retorica?
Nei tempi lunghi richiesti dalla relazione educativa è inevitabile commettere degli errori, perché i nostri limiti sono messi alla prova. Gli anni di servizio hanno frequenze di respiro diverse. Ci possiamo sentire affannati, ci può sembrare troppa la formazione, le attività, la Zona, le Comunità Capi, le richieste esigenti dettate dalla relazione individuale con ciascun ragazzo. Allora, in quel momento di fiato corto, non diamoci la “clava” in testa. Rileggiamo invece le parole del PA, ci troveremo saggezza. Aspettiamo che il “respiro” del nostro animo di servizio si regolarizzi. E ripartiamo. Dopo la fatica e l’errore, dopo aver vissuto il nostro limite, si può ricominciare solo con fedeltà.
La piena consapevolezza del significato del Patto è poi la prima alleata nella solitudine dei giorni in cui si è soli a strappare un pomeriggio agli esami o al lavoro per lo scoutismo. Perché man mano che la fatica del Servizio lascerà il suo segno (e lo lascerà, statene certi), quel solco potrà essere riempito soltanto dalla stanchezza o da quel senso di impegno che porta un frutto sempre fresco, anche anni dopo che quel Servizio lo si è dovuto lasciare. In questo impegno, ricordiamoci, non siamo soli, abbiamo sorelle e fratelli in staff e in Comunità Capi: persone e amici a cui rendersi disponibili ma anche a cui chiedere una mano, soprattutto quando non si vede più la traccia del sentiero.
Quella scout è una scelta di fedeltà, ma anche di libertà. Penso che sia questo il nocciolo della questione: aderire al Pa non vuol dire essere aderenti al Pa, quanto interrogarsi ogni giorno, come donne e uomini liberi, sul nostro agire da educatori rispetto ad esso. La fedeltà nasce da una scelta consapevole portata avanti con responsabilità. Certo, serve tempo, per crescere come persone e nella vocazione di capi. Per questo è meglio abbandonare la logica della tessera a punti (i bollini associativi, per intenderci): proviamo a essere fedeli, non fidelizzati, anche al di fuori del servizio.
Mi piace ricordare come la possibilità di essere un educatore scout sia un privilegio che vive grazie al sogno, all’impegno, alla dedizione di tanti capi, tante Comunità che, dagli albori ad oggi, sono rimasti fedeli al Patto. Poter vivere la propria fede anche come scout e come capo Scout è un dono, una Grazia. Un dono esigente ma che, in quanto tale, può rigenerarsi a ogni campo, a ogni route, a ogni nuovo sentiero. Un dono di Gesù e della Chiesa, che abbraccia tutti noi e ci sta accanto tra i monti e tra le pareti delle sedi. Ecco, forse anche la fedeltà è un po’ una Grazia, e va vissuta nel rispetto verso gli altri fratelli e sorelle scout.
Proprio per non scadere nella retorica, ritengo che il caso in cui il capo non eserciti la sua cittadinanza attiva in coerenza con i valori dell’associazione sia da affrontare con grande serietà. La difficoltà di vivere la fedeltà al servizio si manifesta a volte non solo con la forma della fatica quotidiana. Ma anche, ad esempio, rispetto alla fatica di condividere la posizione dell’associazione. Quest’anno ho riletto il Pa in diverse occasioni: non a causa della stesura di questo articolo, ma perché Agesci ha preso posizione su gravi fatti di rilevanza pubblica e ho sentito il bisogno di verificare la coerenza dell’azione con quella dei valori. Non vi ho trovato discrepanze. Il paragrafo finale del PA sulla Scelta politica è univoco e consente di gestire con grandi margini di sicurezza la differenza tra ciò che è politico da quello che è partitico. Chi, tra i lettori di queste parole, si fosse sentito in qualsiasi modo ferito o tradito dalle prese di posizione dell’associazione in tema di Accoglienza, ufficializzate nel documento “La Scelta di Accogliere” approvato dal Consiglio Generale del 2019, ha tutta la mia empatia. Perché scoprirsi diversi da quello che si pensava di essere non è piacevole. Ma non si può fornire un buon servizio in Agesci testimoniando contro il PA.
Mi limito a suggerire un esercizio di umiltà a riguardo. A me è capitato di leggere il PA e riconoscerne la distanza dal mio comportamento e dal mio sentire. Che non è la distanza tra il bene e il male, tra il giusto e lo sbagliato. Se il PA rappresentasse il bene assoluto non potrebbe esistere una Federazione italiana dello scoutismo, tanto per cominciare. Il PA è la cartina di tornasole dell’aforisma “Semel scout, semper scout”, uno strumento per mantenersi coerenti al proprio essere scout da adulti in base a un sistema di valori e impegni condivisi. Ma se qualcosa non torna, occorre fare discernimento.
Il PA è un piccolo, concreto, manuale di felicità. La felicità di veder crescere i Ragazzi con la stessa fedeltà da noi testimoniata – e il medesimo stile nell’affrontare le nostre incoerenze -, la felicità di vedere crescere nel servizio una Guida, una Scolta e poi ritrovarsela in Staff, lì pronta più che mai a raccogliere il testimone. La felicità di una giornata qualunque, magari anni dopo aver appeso il fazzolettone al chiodo, in cui si è agito, si è creduto, si è faticato, si ha avuto la forza di portare dignità e amore al prossimo sconosciuto. La felicità di una giornata da adulto vissuta con la stessa letizia di una giornata di campo estivo da ragazzo. E anche lo sconforto di una giornata in cui, rispetto al Patto, è andato tutto storto ma il calare della notte non ci ha sorpreso arresi alla nostra infedeltà.
Non è una questione di metodo, ma di dar peso a quello che davvero conta: essere scout per tutta la vita, anche lontani dal servizio. Essere donne e uomini della Partenza, capaci di perdersi, di smarrirsi, ma incapaci di perseverare nell’errore. Fedeli ai nostri impegni e al nostro sogno.

 

[Foto di Andrea Pellegrini]

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