Educazione sentimentale

Ci chiediamo spesso come affrontare certi problemi in comunità capi, come risolvere questioni  che hanno a che fare con il sesso, l’amore e la giovane età, la maturità dei capi, le regole … E se ne parlassimo “prima”? se in  comunità capi facessimo seriamente una educazione dei sentimenti, nella fondata speranza che non è poi così vero che “al cuor non si comanda”, avremmo ancora così tanti disastri affettivi e relazionali da gestire nei nostri gruppi? Forse sì, ma forse anche no. Non sto parlando di capi che si innamorano delle scolte o di amori che nascono ai campi di formazione: molte belle e solide storie d’amore, lo sappiamo, sono nate così. Mi riferisco, invece, a quel famigerato “divario etico” che nasce dal fatto che anche noi adulti e giovani adulti rischiamo di vivere talvolta dinamiche egocentriche nel concepire la nostra vita affettiva. Quanto gioca la difficoltà a tenere insieme corpo e sentimento, amore e sesso, nelle relazioni tra capi e con i ragazzi che educhiamo?  Certamente questo non può non riflettersi nella nostra fatica ad educare  serenamente l’affettività e la sessualità dei ragazzi oggi.

Sarà che siamo immersi in una cultura per certi aspetti decadente, sicuramente individualistica, ma la sensazione è che non si riesca più a dire dei “no”, come se ci fosse solo un ultimo treno e poi il nulla, come se tutto fosse reversibile, e non fa differenza che si mandi all’aria una relazione importante o si tradisca il proprio ruolo di educatore: ciò che conta è l’attimo e il mio sentire. Ma non sempre si può tornare indietro, non tutto si può aggiustare,  e rivendicare il diritto ad essere felici – ora – può compromettere la pienezza vera domani. Il nostro è un tempo che si è mangiato il futuro e non sono sicura che si possa parlare di educazione senza futuro (forse neanche di etica, ma qui si aprono altri discorsi).

Nessuno può chiamarsi fuori:  questo tempo complesso e precipitoso ci attraversa e ci confonde. Tuttavia proprio la friabilità del terreno in cui ci muoviamo quotidianamente ci chiama ad essere preparati. Questa complessità fluida va decifrata, ne abbiamo gli strumenti e ne vale la pena perché lo scautismo in Agesci ci ha insegnato che potare una pianta aiuta a farla crescere meglio, più forte, con linfa che scorre e rami saldi che possono diventare casa per molti.

Sappiamo bene che in modo naturale, senza cioè che sia necessario una nostra qualche deliberazione,  crescono di noi soltanto le unghie e i capelli (e questi autonomamente anche cadono, ahimè): per il resto siamo frutto di volontà, di scelte, incontri, esperienze, amore ricevuto e dato. Per questo possiamo provare a diventare quello che desideriamo. Il meglio di quello che desideriamo. Non è questo il senso dell’educazione? Perché dedichiamo così tante energie a giocare il nostro gioco, capi e ragazzi, se non per avere delle vite più belle … E il bello, ci insegnano gli antichi greci, ha a che fare con il buono. La fatica sta nel capire oggi che cosa sia Bello – perché per anni ci hanno detto che “il bello è ciò che piace”; e che cosa sia il Buono – perché è una categoria passata di moda e poco attraente, culturalmente perdente negli ultimi decenni.

Una via potrebbe essere quella di lasciare che le cose vadano, sperando in bene, ed evitare in Co.Ca. gli argomenti “spinosi” per non creare spaccature (the show must go on). Non so se sia una modalità diffusa, vero è che gli adulti raramente sono disponibili a mettersi in discussione, anche se scout. Credo però che si debba tornare a dare centralità alla vita delle comunità capi, facendole tornare ad essere con forza il cuore dell’azione educativa, occasione di formazione umana e non solo incontro tecnico-logistico. Più facile (e più sterile) è accordarsi sull’uscita o preparare la giornata dei genitori, che condividere le proprie idee su una sessualità ben vissuta, sulla giustizia nei nostri rapporti, sui sentimenti che ci animano e che lasciamo  ci governino, senza saperli nominare. Per far questo c’è bisogno di obiettivi chiari e di tempo dedicato, di frequentazione assidua affinché le relazioni crescano e si approfondiscano. Trovarsi una volta la mese forse è un po’ poco, poiché il passo per diventare assemblee di condominio è breve …

E poi all’interno delle nostre comunità capi è importante riuscire ad avere la possibilità di confrontarsi con realtà di coppia e familiari, cercando il modo di mantenere una verticalità che offra ai più giovani esempi credibili di amore (eros) nel segno di Cristo (agape).

In questo contesto assume un ruolo decisivo la figura dei capigruppo (servizio impegnativo, tra i più ingrati) che devono pertanto attrezzarsi per proporre una buona educazione dei sentimenti, facendosi anche aiutare. Ci sono persone competenti, percorsi di crescita per ogni età perché non è mai troppo tardi (e mai troppo presto) per queste cose. La comunità capi come comunità educante può significare anche questo: luogo in cui ci si forma in verità e giustizia. Certo, ci vuole lo spazio per il chiarimento e perché il non detto possa trovare parole, altrimenti scava solchi profondi e incolmabili; ci vuole spazio perché anche chi percepisce il disagio dello scandalo possa esprimersi liberamente. A questo servono i capigruppo, penso, senza mettersi in cattedra: Gesù sta per terra quando accusano l’adultera e aspetta seduto al pozzo la samaritana che va a prendere l’acqua nelle ore più calde proprio per non incontrare sguardi giudicanti. Trasformare le comunità capi in tribunali può far sì che qualcuno pensi di poter scagliare la sua pietra.

Ma tra l’assemblea di condominio e il tribunale, quante infinite sfumature di scautismo possiamo creare nelle nostre comunità?

C’è spazio per l’educazione, non arrendiamoci all’ordinario.

 

Giorgia Caleari

Incaricata Coordinamento metodologico del Veneto

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