Dov’è la differenza

[di Anna Casella, docente di Antropologia culturale] – Parlare di coeducazione sembra davvero un linguaggio di altri tempi. Ragazzi e ragazze sono oggi abituati a condividere tutti gli spazi e tutti i momenti. L’abbigliamento, il linguaggio non si differenziano, le attività del tempo libero sono realizzate insieme e, se si escludono alcuni sport estremi, non si pensa che ci siano attività “da uomini” e “da donne”.

La distinzione di genere (come oggi si usa dire) riguarda praticamente solo il mondo religioso (in realtà neppure tutto, dal momento che molte confessioni protestanti ammettono sacerdoti-donne) mentre in tutti gli altri ambiti ciò non sembra avere più alcun significato: l’attuale ministro della difesa, ad esempio, è una donna. Ma quando l’Agesci sorse, dalla fusione tra l’associazione scout maschile, l’Asci e quella femminile, l’Agi, nel 1974, le cose stavano davvero in maniera diversa. Erano gli anni successivi alla grande trasformazione culturale del Sessantotto e, soprattutto le giovani generazioni, si misuravano con una ideologia che chiedeva maggior attenzione all’individuo, maggior autodeterminazione, maggiore libertà. Di fronte ad una società che manteneva caratteri patriarcali e paternalistici avanzavano ideologie che contestavano la famiglia come istituzione gerarchica nella quale la donna aveva un ruolo subalterno (è del 1972 un libretto di D. Cooper che aveva per titolo “La morte della famiglia” mentre J. Lussu scriverà qualche anno più tardi “Padre, padrone e padreterno”) contestavano l’autorità politica e quella religiosa. L’idea di una scuola meno basata sull’autorità (dei classici, dell’insegnante, della istituzione) aveva prodotto manifestazioni giovanili piuttosto vivaci proprio nel cuore della “conservatrice” Università Cattolica.

Si respirava aria di contestazione anche nel mondo femminile che faceva della emancipazione la propria bandiera. Erano soprattutto la questione della maternità e del lavoro ad interessare le donne, in particolare quelle di “sinistra” e radicali che avanzavano richieste per la legittimazione dell’aborto e della contraccezione. L’idea che la donna dovesse esprimersi anche in ambito sociale, con la propria professione, pur senza rinunciare al “modo femminile” entrava sempre più nella mentalità collettiva: le ragazze cominciarono in quegli anni a presentarsi numerose nelle università anche se, in prevalenza, in quelle umanistiche. Fermenti che avevano trovato espressione a livello legislativo: sono degli anni Settanta le leggi per la tutela del lavoro femminile e per le “pari opportunità” (grazie ad una donna, la democristiana Tina Anselmi, ministro del lavoro nel 1976).

Se si dovessero, sinteticamente, individuare i percorsi sui quali si stava avviando la trasformazione del mondo femminile di quegli anni, e, in particolare, la relazione col mondo maschile, si dovrebbero ricordare tre elementi: l’emancipazione femminile, la trasformazione della istituzione familiare, la ricerca di una parità tra i sessi sia nell’ambito sociale sia in quello legislativo. Nel 1970 era stata varata la legge sul divorzio, osteggiata dal mondo cattolico, che chiese e ottenne di sottoporla al referendum: questo, avvenuto nel 1974, venne però vinto dai sostenitori del divorzio. Il nuovo diritto di famiglia del 1975 sancì il principio della parità tra i coniugi e, soprattutto, introdusse norme che cambiavano profondamente l’istituzione del matrimonio e della famiglia. Si abolì, ad esempio, la dote, vale a dire la tradizione che imponeva alla donna di entrare nella casa del marito con una “dotazione” economica (che rimaneva l’unica sua ricchezza) a vantaggio della comunione dei beni, così come si abolì la distinzione tra figli “naturali” (quelli nati al di fuori del matrimonio) e figli “legittimi” (avuti dal coniuge), o il principio della separazione “per colpa”. Trasformazioni che indebolivano profondamente l’immagine della famiglia come istituzione sociale fondamentale, a vantaggio di una visione che intendeva privilegiare gli individui, specie i più deboli, cioè moglie e figli.

Di queste trasformazioni si colgono gli esiti nell’attualità. Da un lato, si stanno esplorando tutte le componenti e le sfumature dell’individualismo appena abbozzato negli anni Sessanta e Settanta. Nessuna ragazza, oggi penserebbe al matrimonio come ad una istituzione che le garantisce la sicurezza economica e il ruolo sociale e, probabilmente, nessun ragazzo penserebbe di dover mantenere economicamente la propria compagna: l’idea che occorra avere una professione è ormai profondamente radicata sia nei maschi sia nelle femmine.

Forse solo la componente femminile straniera (le ragazze di seconda generazione) pensano ancora in termini di “emancipazione” (ad esempio dall’autorità paterna o da un ruolo subalterno al maschio) mentre le ragazze italiane parlano piuttosto di affermazione di sé o di espressione del sé. Individualismo che si rintraccia nelle relazioni affettive (anche quelle stabili e, in qualche modo, consacrate) nelle quali l’orizzonte sembra comunque essere la gratificazione personale e non, invece, il compito sociale. Dall’altro lato si è fatta strada l’idea che la differenza tra uomo e donna non sia né tanto grande e neppure tanto profonda. È abbastanza evidente la sostanziale uniformità di comportamenti ed espressioni tra ragazzi e ragazze, così come l’indeterminatezza della immagine del maschile/femminile sulla quale si costruisce, ad esempio, la pubblicità. Gli studi gender, mettendo in risalto quanto di culturale esiste nella costruzione del ruolo maschile e femminile scardinano certezze date per acquisite e stili educativi rimasti inconsapevoli. Ribaltano anche la visione della sessualità concepita ed esperita non più come l’adesione ad un dato “naturale” e ad un obbligo procreativo piuttosto come una scelta espressiva, sostenuta dalla ideologia dei diritti individuali.

A voler ben guardare, dunque, le sfide sono più di una. Certo, i giovani hanno guadagnato un rapporto più facile e più franco con l’altro sesso, meno determinato da sovrastrutture, senz’altro più libero. Ma la parità non sembra essersi realizzata del tutto: le donne continuano a mantenere ruoli bassi o retribuzioni non adeguate nel lavoro e si accollano ancora molta parte del lavoro domestico; al forte investimento sulla affettività (e al modello romantico e utopico di relazione) corrisponde spesso l’estrema debolezza dei rapporti interpersonali che, per voler mantenere una “autenticità” si espongono alla fragilità e alla incostanza; l’espressione del sé produce a volte individualità deboli, problematiche; il conformismo riemerge sotto altri aspetti.
Forse c’è ancora molto da fare nel campo della coeducazione.

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