Chi parla bene pensa bene

di Christian Caleari

Chi parla bene, pensa bene. Lo diceva sempre la mia maestra delle elementari, e ancora oggi serbo il suo insegnamento tra le cose più preziose che mi ha regalato.

Fin dai lupetti impariamo a giocare con le parole maestre, capaci di evocare un senso, una direzione sulla quale incamminarsi. Non se ne capisce subito il significato profondo, ma lo si scopre poco a poco. Le parole, usate con intenzionalità educativa consapevole, hanno il potere di schiudere poco per volta orizzonti di senso, diventano parte e danno forma al nostro immaginario.Una delle tante meraviglie del metodo scout è proprio questa: aver intuito che le parole sono contenitori da riempire di esperienza, di vita.

Mi chiedo allora che significato abbia oggi l’espressione “bene comune”. Mi chiedo cosa riesca ad evocare nelle coscienze dei nostri ragazzi. Me lo chiedo mentre in tv, sui social network e sul mio cellulare rimbalzano e si moltiplicano i loro volti sorridenti a San Rossore, i loro occhi pieni di gioia e di futuro.

Provo a rispondere alla domanda, procedo in punta di piedi nella consapevolezza di non poter entrare nel cuore e nella coscienza di un ventenne di oggi. E infatti, qui sta il punto. Per me “bene comune” è una parola familiare. La pronuncio e subito il mio pensiero vola alto, la mia mente la associa ad altre parole: calore, sogno, energia. Per la mia generazione “bene comune” è una parola in qualche modo “ereditata”: per i nostri fratelli maggiori era un’idea guida, forse un’ideale, per alcuni un’ideologia. Era un periodo di bene comune in espansione, alimentato da un sogno di rilancio e di rinascita che scaldava le coscienze, al limite della contestazione del sistema magari, ma le scaldava eccome.

Un calore che si è intiepidito nel corso dei decenni successivi, quando progressivamente è aumentata la distanza tra ideale e realtà, tra Politica intesa come custode e promotrice del bene comune appunto (dello “sortirne insieme” per dirla con don Milani) e politica con la “p minuscola”, custode dell’interesse particolare e del sacrificio comune.

Questo vedono oggi i ventenni. In una società dove le opportunità di realizzazione personale e professionale sono oggettivamente in calo, il rischio per tutti è di scivolare nel disincanto, nel cinismo e nel pragmatismo al limite dell’egoismo.

Tornando alle immagini di san Rossore non vedo però disincanto, non vedo cinismo. Vedo uno sguardo tutto proteso in avanti alla ricerca di una sfida vera per cui valga la pena giocarsi fino in fondo. E allora mi preoccupo, da educatore, della prospettiva cui orientare quegli sguardi.

Solo una comunità capi che coltiva e alimenta il sogno del bene comune può educare al bene comune. La prima prospettiva di un futuro possibile, per quei rover e quelle scolte sorridenti, è la comunità di adulti che li sta accompagnando, è la comunità capi. Rover e scolte alzano lo sguardo e ci vedono come adulti in cammino nella nostra comunità di appartenenza. Abbiamo la forza di avere lo stesso sorriso, lo stesso coraggio? Chiediamocelo e cerchiamo risposte, senza ipocrisie. Penso alle comunità capi reali, non a quelle modello (che pure esisteranno, evviva!). Quanto la nostra  riesce a essere una comunità inclusiva, accogliente e rispettosa della fragilità del singolo, luogo di confronto e di discernimento, spazio di crescita personale? Luogo di condivisione del bene di ciascuno, spazio di benessere e di libertà? Quanto la nostra comunità capi sa essere esempio vivente di bene comune, di bene messo in comune?

La vera sfida di oggi, nel tempo del disorientamento e sotto la minaccia di un nichilismo che è il contrario dello spirito scout, è ridare suono e profumo alla parola bene comune nel nostro agire quotidiano, nelle relazioni umane più prossime. Dargli forma, lavorare di testa e di cuore. Resistere, innanzitutto nelle nostre comunità di persone-capi, alla forza centrifuga della solitudine e dell’impotenza che spesso hanno il sopravvento sulla passione. L’educazione al bene comune passa solo attraverso la testimonianza di una comunità educante, è una dinamica complessa e collettiva.

Ho visto comunità capi in crisi non per scarsa competenza o conoscenza del metodo, ma per il progressivo dissolversi del sogno che le animava. Credo che gli adulti che affrontano la sfida dell’educazione, oggi, abbiano bisogno innanzitutto di spazi per “allenarsi” insieme a guardare al futuro con speranza. Senza questo sforzo la parola bene comune non può che spegnersi, rimanendo un vago miraggio, un’illusione.

Di spazio “intangibile” dove le diversità si incontrano e generano il nuovo parlava anche Aldo Moro:  «Non è importante che pensiamo le stesse cose, che immaginiamo e speriamo lo stesso identico destino; ma è invece straordinariamente importante che, ferma la fede di ciascuno nel proprio originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo, tutti abbiano il proprio libero respiro, tutti il proprio spazio intangibile, nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di verità, tutti collegati l’uno all’altro nella comune accettazione di essenziali ragioni di libertà, di rispetto e di dialogo. La pace civile corrisponde puntualmente a questa grande vicenda del libero progresso umano, nella quale rispetto e riconoscimento emergono spontanei, mentre si lavora, ciascuno a proprio modo, a escludere cose mediocri per fare posto a cose grandi».

Concretamente, allora, che fare nelle nostre comunità capi per far spazio alle “cose grandi”? Senza pretendere di dare ricette, suggerisco due attenzioni.

La prima: riconsideriamo e rivalutiamo il progetto educativo di Gruppo quale occasione preziosa per l’emersione del futuro, quasi una palestra per la definizione e la condivisione del bene comune cui tendere. Esercitiamoci a immaginare il futuro insieme, prendiamoci il tempo per “guardare lontano”. La concretezza e gli strumenti sono importanti, ma se il pensiero è debole l’azione (il fare) rischia di perdere senso.

La seconda: lasciamo che il vissuto quotidiano di ciascun capo trovi più spazio per esprimersi nella comunità, nel rispetto dei tempi e della disponibilità di ciascun capo a mettersi in gioco. Non lasciamo che la comunità capi diventi un “consiglio di amministrazione” di Gruppo, dove si organizza molto e ci si conosce poco. Lasciamo che la comunità si alimenti dell’esperienza di ciascuno, trovando slancio a partire dalle ricchezze, dalle difficoltà e dalle passioni messe in comune. Giochiamoci come persone, non solo come capi: ne uscirà una comunità “più calda” che non sarà la somma delle individualità, ma qualcosa di più che ci aiuterà a crescere come uomini e donne, sempre “in partenza”.

Non è facile. Ci vorrebbe un miracolo, forse sì. Un miracolo come quello accaduto duemila anni fa sulle sponde del lago di Tiberiade. Cinquemila persone si sono radunate intorno a Gesù. Si fa sera e i discepoli lo invitano a congedare la folla. Non c’è pane per tutti: che ognuno se ne torni a casa per sfamarsi, ciascuno da solo. Sono cinque pani d’orzo e due pesci, offerti da un ragazzo, a rendere possibile il miracolo. Gesù ha compassione (con-passione) e ci insegna a condividere per moltiplicare. Ecco dove nel vangelo si parla di bene comune! (Gv 6,1-15)

Passione, compassione e condivisione: sono gli ingredienti buoni per riaccendere il sogno del bene comune.
Abbiamo caricato a molla 30.000 ragazzi, abbiamo detto che nulla sarà come prima. Bene, iniziamo da noi. Diamo un calcio all’im-possibile, crediamo nel cambiamento.

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