Chi non vuole lavorare, neppure mangi

Nella seconda lettera di Paolo ai cristiano di Tessalonica troviamo questa regola che l’Apostolo dà ai cristiano (2Ts 3,10), ribadita subito dopo con l’esortazione rivolta a quelli che vivono disordinatamente senza fare nulla e in continua agitazione di mangiare il proprio pane lavorando in pace (2Ts 3,11-12).

A sostegno di questa esortazione Paolo porta il suo esempio: noi non abbiamo vissuto oziosamente tra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno. Non che non ne avessimo l diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. (2Ts 3,7-9) Lavorare per non essere di peso ad alcuno, ma anche per farne parte a chi si trova nella necessità  (Ef 4,28).

Il lavoro fa parte della vita ordinata del cristiano, il lavoro come l’attività con cui ognuno è in grado di garantire il proprio sostentamento e anche aiutare chi è nella necessità.

Queste parole di Paolo possiamo accostarle a quelle della preghiera insegnata da Gesù: dacci ogni giorno il pane di questo giorno.

Inizia così la seconda parte del Padre nostro, quella in cui, dopo aver pregato per le cose del Padre, lo preghiamo per le nostre cose, che ci servono per la vita di ogni giorno. La prima è appunto il pane quotidiano. La formula al plurale fa pensare che non solo la preghiera, ma anche il pane che chiediamo al Padre debba stare dentro un contesto di solidarietà, è il nostro, dei figli del Padre che sta nei cieli. Ma Gesù insegnandoci a chiedere il pane  non richiama solo la solidarietà del pane spezzato e condiviso, non posso trattenerlo per me lasciando senza qualcun altro senza tradire il senso di quella preghiera rivolta la Padre, non richiama solo un criterio di giustizia distributiva per cui risulta inaccettabile che ci sia qualcuno che ha la pancia piena e accumula pane anche per i giorni a seguire e altri che invece non hanno nulla da mettere nella pancia, ma richiama anche una solidarietà tra i fratelli che sta proprio nella natura del pane.

Il pane infatti non viene dal cielo e non è solo dono di Dio, come era la manna nel deserto, ma il pane è frutto della terra e del lavoro dell’uomo. Di tanti lavori e del lavoro di tanti. Il pane è prodotto di una società organizzata, di quella solidarietà che si realizza nella società organizzata. Il pane è frutto del lavoro manuale e della cultura, è tecnica. Perché tutti abbiamo ogni giorno il pane per quel giorno serve lavoro, competenza, organizzazione sociale, serve anche un’etica per i rapporti tra gli uomini.

E per la nostra vita quotidiana non abbiamo bisogno solo del pane, ma di tanto altro, c’è un  posto, un compito e una responsabilità che ognuno deve avere dentro una società che non fa semplicemente del lavoro il mezzo per sostenersi economicamente, ma per costruire insieme una convivenza finalizzata al bene di ognuno. Ciascuno fa la sua parte per il bene comune.

Il lavoro non è solo la maledizione per cui con dolore trarrai dal suolo il cibo per i giorni della tua vita e con il sudore del tuo volto mangerai il pane  (Gen 3,17-18), ma il lavor è anche lavocazione dell’uomo a ricostruire quel giardino/paradiso perduto dove tutti possono godere della vita e di quello che serve alla vita.

Il racconto dei primi capitoli della Genesi non fa di questo giardino/paradiso il luogo dell’ozio perduto a causa della colpa e sostituito dalla fatica del lavoro. Anche in quel giardini/paradiso l’uomo ha un compito: custodire, per se e per il proprio fratello. Il racconto dei due fratelli, Caino e Abele, ci insegna infatti che la maledizione sta anche nella perdita di responsabilità verso il fratello, sono forse io il custode di mio fratello?

Custodire la terra e custodire il fratello sono l’orizzonte entro cui collocare il senso del lavoro. Il lavoro è una vocazione: siamo chiamati, non solo da Dio, ma anche dalla terra e dai fratelli a un compito, anzi a più compiti, e la risposta a questa vocazione fa la dignità dell’uomo, la dignità di colui che è chiamato a dare compimento all’opera di Dio.

C’è una bella interpretazione del racconto dei primi capitoli di Genesi che non li legge solo come  il racconto del principio, ma come la prefigurazione del futuro, come l’utopia verso cui ci sentiamo proiettati sentendoci chiamati a essere collaboratori dell’opera iniziata da Dio. La creazione non come un’eepra conclusa, ma come un opera inziata a cui anche noi siamo chiamati a partecipare per portarla a compimento.

Se la lettura di questi pochi passi della Bibbia ci dà questo interessante orizzonte dentro cui riflettere sul tema del lavoro, non posiamo evitare alcune domande che ci rimbalzano pensando all’orizzonte dentro cui oggi, nella nostra società si pone la questione del lavoro.

Che dire della riduzione del lavoro a semplice prestazione scambiata dentro un sistema mercantile chela riduce a semplice valore di scambio, oggi noi parliamo di mercato del lavoro?

Che dire della perdita del valore sociale e solidale del lavoro, ridotto ad una questione di realizzazione individuale, non lavoro per noi, ma per me, non pensando ail bene comune, ma pensando alla ma felicità? Che poi significa guadagnare abbastanza per stare nel mercato della felicità?

Che dire di una società che non offre ai giovani un orizzonte di senso per cui possano trovare un posto, il loro posto nel mondo come costruttori di futuro, ma semplicemente mettendosi sul mercato delle prestazioni e aspettando qualcuno abbia bisogno di loro, magari in quelle forme di precarietà che assomigliano tanto ad un usa e getta?

Che dire di una economia che ha perso il suo senso di scienza che studia l’uso razionale dei beni per il raggiungimento di fini determinato, che non possono essere solo quelli che qualcuno diventi più ricco impoverendo altri, e ha lascito il posto alla finanza, diventata solo il modo per moltiplicare il proprio patrimonio?

Sono solo alcune delle domande che un lettore della Bibbia che cercadi rispondere alla domanda; cosa dice la Bibbia del lavoro si fa quando osserva il mondo attorno a sé. [Don Andrea Meregalli]

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